Abbonamento a feed RSS Agensir
Servizio Informazione Religiosa
Aggiornato: 1 anno 3 mesi fa

La rotta del Sinodo: una Chiesa accogliente per tutti

Lun, 30/10/2023 - 13:15

Arrivati a metà del cammino di questo Sinodo, che ci chiede di ripensarci come Chiesa, ci ritroviamo attoniti in un mondo polarizzato che “ha smarrito la via della pace, che ha preferito Caino ad Abele” (Cfr. Papa Francesco Preghiera per la pace del 27.10.2023); un pianeta che “si sta sgretolando e forse si sta avvicinando al punto di rottura” (Papa Francesco, Laudate Deum,2) .
Ci viene spontaneo domandarci allora: dove siamo noi nel mondo, dove siamo nel nostro viaggio? Quanta strada abbiamo percorso? E verso dove? E soprattutto è servito questo ritrovarsi a Roma di vescovi di tutti i continenti, insieme ad una piccola parte di “semplici battezzati”?
A cosa è servito?
Il documento di sintesi si chiude citando il Vangelo di Marco (Mc 4,30 ss). Il regno di Dio è come un granello di senapa che, quando viene seminato per terra, è il più piccolo di tutti i semi; ma poi diventa così grande che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra.
Ecco a cosa è servito ritrovarsi insieme, pregare insieme, ascoltare insieme la parola di Dio e ascoltarci gli uni gli altri: a riscoprire ciò che ci unisce in Cristo; per essere, camminando insieme, la terra buona dove il seme possa crescere.

A testimoniare che un altro modo di stare insieme è possibile.

A valorizzare sempre, popolo di Dio unito dal battesimo, ciò che ci unisce e mai ciò che ci divide. A capire che la corresponsabilità a cui ognuno è chiamato – nella diversità dei carismi e dei ministeri – è un servizio e non un potere. A riscoprire come il discorso di Gesù sulla povertà ci riguarda tutti, come persone e come istituzione. A proporci di evitare ogni clericalismo (quello dei laici e quello dei sacerdoti ordinati). A riscoprire l’importanza di ognuno; e soprattutto della comunione che ci fa una cosa sola, membra gli uni degli altri. A riflettere sul ruolo delle donne, che furono le prime ad annunciare la resurrezione di Gesù. A ridare slancio all’ecumenismo. Ad essere una Chiesa accogliente per tutti. Tutti, nessuno escluso. Una Chiesa che non ragiona secondo le divisioni e le etichette del mondo, ma si domanda in ogni momento cosa avrebbe fatto Gesù di fronte a questo fratello, a questa sorella feriti. A come avrebbe fatto in modo di non escluderli dalla redenzione.

Sono tante le sfide che come Chiesa abbiamo davanti. Riguardano il sacerdozio, il diaconato, i ministeri non ordinati, la vita consacrata, le famiglie e le situazioni matrimoniali difficili; il ministero petrino, l’ecumenismo, la comunicazione nell’era digitale. Riguardano anche il tema controverso dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale.

Ma è l’amore che le ricomprende tutte. Una sola regola descrive la Chiesa costitutivamente sinodale: la carità; una creatività missionaria fondata, paziente, benigna; “non invidiosa, che non si vanta, che non si gonfia” (Cfr 1Cor 13,4 ss).
Questo ci ha detto l’assemblea che si è appena conclusa. Indicando una rotta e non un menu. Milioni, miliardi di persone sono come il viandante che percorreva la strada tra Gerusalemme e Gerico. Non possiamo dire non sapevo. Da questo saremo giudicati (cfr. Mt 25).

Sinodo sulla sinodalità. Mons. Repole (Torino): “Sensibilità differenti ma nessuna spaccatura, segnale di speranza per il mondo”

Lun, 30/10/2023 - 13:14

“Ci siamo incontrati tra fratelli cristiani di ogni angolo del mondo. Abbiamo sperimentato la cattolicità della Chiesa ed è stata l’occasione per riscoprire ciò che qualche volta dimentichiamo: il mondo è davvero vasto e la Chiesa è vasta”. Mons. Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, ha partecipato alla XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi che si è tenuta in Vaticano dal 4 e al 29 ottobre.

Eccellenza, si è conclusa la prima fase del Sinodo sulla sinodalità voluto da Papa Francesco. Che esperienza è stata?
Abbiamo vissuto la sinodalità. Nel corso dei lavori, ci sono state voci diverse che sono state unificate dal soffio dello Spirito. Ci sono punti di vista differenti, ma formano un unico coro. Ed è stato fondamentale collocare queste voci non soltanto sul piano intellettualistico, ma su un livello profondo di preghiera e di ascolto di ciò che lo Spirito dice attraverso di noi. Non soltanto come singoli, ma come comunità.

La relazione di sintesi è stata approvata quasi all’unanimità, con pochi paragrafi che hanno ottenuto meno di 300 voti. In particolare i punti che riguardano il diaconato femminile, l’inserimento dei presbiteri che hanno lasciato il ministero in un servizio pastorale e il celibato sacerdotale.
Evidentemente ci sono sensibilità differenti, come dimostra anche la sintesi di questo primo atto del Sinodo. Ci sono questioni che rimangono da approfondire: mi è parso illuminante e anche utile, se si guarda la sintesi, il fatto che si siano distinte le questioni che sono patrimonio comune da quelle che vanno approfondite con competenza teologica. Non si tratta di sensibilità personale, ma dell’ascolto della Parola di Dio e di ciò che Dio vuole dire per l’oggi.

Bisogna leggere il documento in questa linea: ci può essere discussione, ci possono essere condizioni diverse, ma non le tensioni o le spaccature che fanno molto comodo al racconto dei media.

Cosa si attende dalla riflessione e dal confronto sui temi più dibattuti, come il ruolo della donna all’interno della Chiesa?
La donna fa parte a pieno titolo e anzi in maniera viva e propulsiva alla vita della Chiesa. Senza le donne, la Chiesa non ci sarebbe e questo è un dato assodato che emerge dalla relazione. Poi ci sono questioni teologiche da affrontare, ad esempio se si parla del diaconato, che è il primo grado del sacramento dell’Ordine sacro. Mi aspetto che si affrontino questi temi con la giusta profondità teologica. Senza banalizzazione, senza superficialità, senza farci dettare l’agenda dal mondo. Il nostro essere Chiesa richiede dialogo, partecipazione, corresponsabilità differenziata di tutti i cristiani nella vita e nella missione della Chiesa.

Quanto ai laici, l’invito contenuto nella relazione è a non clericalizzarli in “una sorta di élite laicale che perpetua le disuguaglianze e le divisioni nel Popolo di Dio”.
Dobbiamo guardare la Chiesa per come è.

C’è bisogno di ministerialità che siano altro dal ministero ordinato, perché la Chiesa possa esistere e possa vivere come comunità di fratelli e sorelle.

Allo stesso tempo, queste nuove ministerialità o queste altre ministerialità non catturano tutta la questione dei laici e del laicato, che riguarda la grande maggioranza delle cristiane e dei cristiani che non svolgono un servizio dentro le mura della Chiesa ma vivono il loro essere cristiani nel mondo. Abbiamo bisogno di nuove ministerialità, ma non dobbiamo leggerle secondo una logica di superiorità e di inferiorità. Senza la presenza delle laiche e dei laici nel mondo – nella famiglia, nell’economia, nella scuola, nell’università, nella politica – il pericolo non è soltanto di clericalismo nella Chiesa, ma di una Chiesa clericale che è ripiegata su se stessa.

Il Sinodo universale parla anche al Cammino sinodale della Chiesa italiana?
Le Chiese in Italia fanno parte della Chiesa cattolica. Il lavoro svolto dal Sinodo sarà di giovamento a tutta la Chiesa italiana. Ma può essere importante anche per l’Italia e per il mondo intero, non soltanto a livello ecclesiale.

Durante i lavori dell’Assemblea sinodale sono echeggiate le questioni del mondo di oggi: le donne e gli uomini costretti a emigrare per sopravvivere, le guerre che uccidono le persone e devastano i Paesi. Molti membri dell’Assemblea venivano da quei luoghi, dove si sperimentano quotidianamente gli effetti devastanti della crisi ecologica che si ripercuote anzitutto sui poveri.

C’è una parola per le crisi nel mondo, dal Medio Oriente alla guerra in Ucraina?
Il messaggio del Sinodo può essere raccolto dalle cristiane e dai cristiani che si ritrovano insieme, pur appartenendo a popoli diversi, e in forza della fede riescono ad affrontare i problemi nel rispetto e nell’ascolto della Parola di Dio. Il Sinodo può essere un grandissimo segnale di speranza per il mondo che, come ha detto il Papa, vive davvero un’ora buia.

Synod on Synodality. Msgr. Repole (Turin): “Different sensitivities, but no divisions, a sign of hope for the world”

Lun, 30/10/2023 - 13:14

“We have met with our Christian brothers and sisters from every corner of the world. We witnessed the catholicity of the Church. It was an opportunity to rediscover what we sometimes forget: that the world is indeed vast and so is the Church.” Monsignor Roberto Repole, Archbishop of Turin and Bishop of Susa, participated in the 16th Ordinary General Assembly of the Synod of Bishops, held in the Vatican on 4-29 October.

Your Excellency, the first phase of Pope Francis’ Synod on Synodality has come to an end. How was this experience?

We lived out synodality. Throughout the meeting we heard different voices brought together by the breath of the Spirit. There are different points of view, but they form one choir. We felt that it was important to listen to these voices not only at an intellectual level, but also at a deeper level of prayer and of listening to what the Spirit is saying through us. Not just as individuals, but as a community.

The summary report was approved almost unanimously, with only a few paragraphs receiving less than 300 votes. These were the paragraphs on the diaconate for women, the inclusion of priests who have left the priesthood in pastoral ministry, and priestly celibacy.

It is clear that there are different sensitivities, as the summary of this first phase of the Synod shows. Some issues remain to be explored in depth. I found it enlightening and even useful that the summary report distinguishes between those questions which are a common heritage and those which should be explored in depth with theological expertise. It is not a matter of personal sensitivity, but of listening to the Word of God and to what God is saying to us today.

The document must be read in this light: of course, there can be discussions, there can be different circumstances, but not the tensions or divisions that are so convenient for the narrative of the news media.

What do you expect from the reflection and discussion on the most controversial issues, such as the role of women in the Church?

Women rightly participate in the life of the Church in a lively and dynamic way. Without women, the Church would not exist – this is an established fact that emerges from the report. Now there are theological issues to be addressed, for example when it comes to the diaconate, which is the first level of the sacrament of Holy Orders. I expect that appropriate theological insight will be brought to bear on these issues. Without trivialisation, without superficiality, without the world dictating our agenda. Our being Church requires dialogue, participation, the various co-responsibilities of all Christians in the life and mission of the Church.

Regarding the laity, the Report invites us not to clericalise them into “a kind of lay elite which would perpetuate inequalities and divisions within the People of God.”

We need to see the Church as it is.

For the Church to exist, and exist as a community of brothers and sisters, there is a need for ministries other than the ordained ministry.

At the same time, these new ministries, or these other ministries, fail to grasp the whole question of the laity, which includes the vast majority of Christians who do not serve inside the Church but live out their Christian identity in the world. We need new ministries, but we must not interpret them according to a logic of superiority and inferiority. Without the presence of the lay faithful in the world – in the family, in the economy, in schools, in universities, in politics – we risk not only clericalism in the Church, but also a clerical Church closed in on itself.

Will the Universal Synod address the Synodal Way of the Italian Church?

The Churches in Italy belong to the Catholic Church. The work of the Synod will benefit the whole Italian Church. But it can be equally important for Italy and for the whole world, not only at ecclesial level.

The concerns of today’s world reverberated throughout the Synodal Assembly meeting: women and men forced to emigrate in order to survive, wars that kill people and devastate countries. Many members of the Assembly came from places where the devastating effects of the ecological crisis are felt daily, especially by the poor.

Is there a word to describe the crises in the world, from the Middle East to the war in Ukraine?

The message of the Synod can be embraced by Christians from different nations who, by virtue of their faith, rise to the challenges of life by respecting and listening to the Word of God. The Synod can become a sign of great hope for the world which, as the Pope said, is living in a dark hour.

Gaza Strip: the Pope’s renewed appeal. Sister Saleh (Parish): “The world powers are gambling with our lives”

Lun, 30/10/2023 - 09:47

“In Gaza, may space be opened to guarantee humanitarian aid, and may the hostages be released right away. Let no one abandon the possibility that the weapons might be silenced – let there be a ceasefire.”

At the end of the Angelus prayer yesterday, October 29, Pope Francis made yet another heartfelt appeal for pace. The Pope’s words reached the Christian community of Gaza, sheltered in the Holy Family parish complex. “We are grateful to the Pope for his appeals, but I wonder who among the powerful of the earth is willing to listen to him,” Sister Nabila Saleh, who has been working for days in the parish with other nuns to help the displaced, told SIR.

“All world leaders are gambling with our lives, with the lives of our dead, our children, our elderly.”

“Is this justice? What do the powerful of the world want from us? They have no heart. There is nothing left in Gaza. There is nowhere safe. Yesterday afternoon there was bombing outside the church.” The humanitarian situation is bound to get worse. Sister Saleh explains: “Yesterday, Israel ordered the evacuation of the school and the cultural centre of the Greek Orthodox Church, which serves 3,000 people, because they planned to carry out bombings. To give them shelter, we opened our patriarchal school, which has also been looted. Three young men are now keeping watch over it.”

“What’s important now is to stay alive. We mourn the deaths of so many of our students and their families. They were young people brought up in tolerance and dialogue, they were not fanatics, they were good young people.”

Humanitarian truce. Coordinated international efforts for a humanitarian ceasefire in Gaza are being called for from many quarters. A White House statement said that Joe Biden and Egyptian President Abdel Fattah al Sisi have “committed to the significant acceleration and increase of assistance flowing into Gaza.”  They also discussed “the importance of protecting civilian lives, respecting international humanitarian law, and ensuring that Palestinians in Gaza are not displaced to Egypt or any other country”. In a similar phone call with Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu, the US President reiterated that “Israel has every right and responsibility to defend its citizens from terrorism”, but stressed the “need to do so in accordance with international humanitarian law, which prioritises the protection of civilian life.” For its part, Israel committed to allowing 100 aid trucks a day into Gaza through the Rafah crossing. The aid will include a limited amount of fuel, which the UN will distribute to Gaza’s vital humanitarian infrastructure, such as hospitals, to prevent Hamas from accessing it. But as the population struggles through the rubble of badly damaged neighbourhoods, this is a drop in the ocean of their needs. There are reports of food raids on UNRWA warehouses in Deir el-Balah (south of Gaza City), with Hamas police busy recovering looted quantities. Many bakers who have been victims of violence have threatened to stop making bread unless they are protected by the police. There are worrying signs of precarious law enforcement after three weeks of war and siege. On X, the Palestinian Red Crescent accused Israel of deliberately bombing hospitals. According to local media, rockets were fired into the area of al-Quds hospital in Tel el-Hawa, forcing medical staff, displaced people and patients to evacuate. “More than 400 people are being treated in our hospital, many of them in intensive care, and moving them would mean killing them. That is why we refuse the evacuation order,” the Palestinian Red Crescent added.

Tragic situation. Save the Children released figures on the number of children killed in the last three weeks of war, citing data from the Gaza and Israeli health ministries: “More than 3,257 children have been reported killed since 7 October, including at least 3,195 in Gaza, 33 in the West Bank and 29 in Israel. Children account for more than 40 per cent of the 7,703 people killed in Gaza and more than a third of all victims in the Occupied Palestinian Territories and Israel. The death toll is likely to be much higher, with some 1,000 missing children believed to be buried under the rubble in Gaza. This toll is expected to rise as the Israeli military ground operations continue.

A Caritas project. Caritas Jerusalem is helping the population with a humanitarian project starting on November 1 (running until December 31) for the approximately 1,000 members of the Holy Family Latin Parish in Gaza. The aim of the aid programme is “to provide treatment for the patients, to meet the humanitarian needs of the displaced persons through the provision of food and hygiene kits, as well as the provision of cash for multiple purchases, but also to improve the mental well-being of the staff through the provision of counselling and social support via remote technology.” The Caritas Jerusalem project is financed with €250,000 from various countries. Caritas Jerusalem has also published the total number of internally displaced persons (IDPs) since the beginning of the hostilities in Gaza, estimated at over 1.4 million. This figure includes nearly 629,000 people sheltering in 150 UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees) facilities, 121,750 people sheltering in hospitals, churches and other public buildings, and nearly 79,000 people sheltering in 70 non-UNRWA schools. In addition, the Gaza Ministry of Social Development estimates that some 700,000 IDPs are living with host families.

Striscia di Gaza: nuovo appello del Papa. Suor Saleh (parrocchia): “Potenti della terra stanno giocando con il nostro sangue”

Lun, 30/10/2023 - 09:47

“A Gaza, si lascino spazi per garantire gli aiuti umanitari e siano liberati subito gli ostaggi. Che nessuno abbandoni la possibilità di fermare le armi. Cessi il fuoco!”.

(Foto Vatican Media/SIR)

Ennesimo, accorato appello di Papa Francesco per la pace ieri, 29 ottobre, al termine dell’Angelus. Le parole del Pontefice hanno raggiunto anche la comunità cristiana di Gaza rifugiata all’interno del complesso parrocchiale della Sacra Famiglia. “Ringraziamo il papa per i suoi appelli, ma mi chiedo chi, tra i potenti della terra, abbia la volontà di ascoltarlo” dichiara al Sir suor Nabila Saleh, che da giorni in parrocchia si prodiga insieme ad altre religiose ad assistere i rifugiati.

“Tutti i governanti giocano con il nostro sangue, con quello dei nostri morti, dei nostri bambini, dei nostri anziani”.

“È forse questa la giustizia? Cosa vogliono da noi i potenti del mondo? Non hanno cuore. A Gaza non c’è più niente. Non c’è un luogo che sia sicuro. Nel pomeriggio di ieri hanno bombardato davanti la parrocchia”. La situazione umanitaria è destinata ad aggravarsi ulteriormente. Rivela suor Saleh: “Ieri Israele ha intimato di evacuare la scuola e il centro culturale della chiesa greco-ortodossa che fornisce aiuto a 3mila persone perché avrebbe intenzione di bombardare. Per dare loro un rifugio abbiamo aperto la nostra scuola patriarcale che nel frattempo è stata anche saccheggiata. Ci sono tre giovani che adesso la sorvegliano”.

“Adesso ciò che è importante è restare in vita. Piangiamo la morte di tanti nostri studenti e dei loro parenti. Erano giovani educati alla tolleranza, al dialogo, non erano fanatici, erano bravi giovani”.

(Foto ANSA/SIR)

Tregua umanitaria. Da più parti si invoca un’azione internazionale coordinata per una tregua umanitaria nella Striscia di Gaza. Dalla Casa Bianca arriva la notizia che Joe Biden e il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi si sono “impegnati a una significativa accelerazione e all’aumento dell’assistenza” a Gaza e hanno discusso “dell’importanza di proteggere i civili, rispettare le leggi umanitarie internazionali e assicurare che i palestinesi a Gaza non siano sfollati in Egitto o in altri Paesi”. In una analoga telefonata, ma con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il presidente Usa ha ribadito che “Israele ha tutto il diritto e la responsabilità di difendere i propri cittadini dal terrorismo” ma ha sottolineato il “bisogno di farlo in linea con la legge internazionale umanitaria che metta al primo posto la protezione dei civili”. Dal canto suo Israele si è impegnato a far entrare a Gaza 100 camion di aiuti al giorno attraverso il valico di Rafah. Gli aiuti dovrebbero includere una quantità limitata di carburante che le Nazioni Unite distribuiranno alle infrastrutture umanitarie chiave di Gaza, come gli ospedali, per impedire ad Hamas di accedere al carburante. Ma si tratta di una goccia nell’oceano dei bisogni della popolazione che si aggira tra le macerie di interi quartieri pesantemente danneggiati. Si segnalano razzie di cibo nei magazzini dell’Unrwa a Deir el-Balah (sud di Gaza City), con la polizia di Hamas impegnata a recuperare le quantità saccheggiate. Molti fornai, dopo essere stati vittime di episodi di violenza, hanno minacciato di fermare la produzione di pane se la Polizia non li avesse protetti. Segnali preoccupanti di un ordine pubblico traballante dopo tre settimane di guerra e di assedio. La Mezzaluna rossa palestinese su X accusa Israele di bombardare deliberatamente gli ospedali, in particolare razzi sarebbero stati lanciati, secondo media locali, nella zona dell’ospedale al-Quds, a Tel el-Hawa, per costringere il personale medico, gli sfollati e i pazienti ad evacuare l’ospedale. “Abbiamo oltre 400 pazienti che sono nel nostro ospedale, molti di loro in terapia intensiva, trasferirli vorrebbe dire ucciderli. Per questo rifiutiamo l’ordine di sgombro”, aggiunge la Mezzaluna Rossa palestinese.

(Foto ANSA/SIR)

Bilancio drammatico. Save the Children ha fornito le cifre dei bambini uccisi in queste tre settimane di guerra, citando i dati diffusi rispettivamente dai ministeri della Sanità di Gaza e Israele: “dal 7 ottobre, sono stati segnalati più di 3.257 bambini uccisi, di cui almeno 3.195 a Gaza, 33 in Cisgiordania e 29 in Israele. I bambini rappresentano più del 40% delle 7.703 persone uccise a Gaza e più di un terzo di tutte le vittime nei Territori palestinesi occupati e in Israele. Il bilancio delle vittime è probabilmente molto più alto, poiché ad essi si potrebbero aggiungere circa 1.000 bambini dispersi a Gaza che si presume siano sepolti sotto le macerie”. Un bilancio destinato a crescere con le operazioni militari di terra delle forze israeliane.

Un progetto della Caritas. Ad aiutare la popolazione anche Caritas Jerusalem che dal 1° novembre (e fino al 31 dicembre) farà partire un progetto umanitario rivolto alle circa 1000 persone della parrocchia latina della Sacra Famiglia di Gaza. Il programma di aiuto ha come obiettivi “la fornitura di cure ai pazienti, fare fronte ai bisogni umanitari degli sfollati fornendo kit alimentari e igienici e assistenza in contanti per acquisti multipli ma anche migliorare lo stato mentale del personale fornendo supporto psicosociale a distanza”. Il progetto di Caritas Gerusalemme sarà finanziato con 250mila euro e vari Paesi. La Caritas Jerusalem ha reso noto anche il numero complessivo di sfollati interni dall’inizio delle ostilità a Gaza, stimato in oltre 1,4 milioni. Questa cifra include quasi 629.000 persone che soggiornano in 150 strutture dell’Unrwa (l’agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi), 121.750 che hanno trovato rifugio in ospedali, chiese e altri edifici pubblici e quasi 79.000 in 70 scuole non Unrwa. Inoltre, il Ministero dello Sviluppo Sociale di Gaza stima che circa 700.000 sfollati interni risiedano presso famiglie ospitanti.

Relazione di sintesi del Sinodo: “Essere Chiesa che articola comunione, missione e partecipazione”

Dom, 29/10/2023 - 13:11

“La nostra Assemblea si è svolta mentre nel mondo infuriano vecchie e nuove guerre. Il grido dei poveri, di chi è costretto a migrare, di chi subisce violenza o soffre le devastanti conseguenze dei cambiamenti climatici e tutti, abbiamo portato in ogni momento, nel cuore e nella preghiera, chiedendoci in che modo le nostre Chiese possano favorire cammini di riconciliazione, di speranza, di giustizia e di pace”. Si apre con queste parole la Relazione di Sintesi approvata e pubblicata ieri dalla XVI Assemblea generale del Sinodo sulla sinodalità. Un documento di circa 40 pagine suddiviso in tre parti, che traccia la strada per il lavoro da svolgere nella seconda sessione del 2024 e dalle quali emerge un rinnovato sguardo al mondo e alla Chiesa e alle loro istanze.
Tutto parte dall’arte dell’ascolto, tema centrale del sinodo, che anziché suscitare confusione o preoccupazione, apre  alla sinodalità cioè a quella capacità “di essere Chiesa che articola comunione, missione e partecipazione”. Ed è appunto la sinodalità il tema della prima parte del documento, nella quale oltre a descrivere l’esperienza vissuta dai padri sinodali, vengono toccati temi importanti e cruciali per la vita della Chiesa. A cominciare dal servizio al mondo senza limiti di sorta, e poi l’iniziazione cristiana ma soprattutto i poveri.

L’opzione per i poveri e gli scartati è per la Chiesa una “categoria teologica”.

Essi infatti “chiedono alla Chiesa “amore” inteso come “rispetto, accoglienza e riconoscimento”, ribadisce il documento, che identifica come poveri anche migranti, indigeni, vittime di violenza, abuso (in particolare donne), razzismo e tratta, persone con dipendenze, minoranze, anziani abbandonati, lavoratori sfruttati. Il testo si concentra ancora su migranti e rifugiati indicandoli quale “fonte di rinnovamento e arricchimento per le comunità che li accolgono e un’occasione per stabilire un legame diretto con Chiese geograficamente lontane”. Per questo, di fronte agli atteggiamenti sempre più ostili nei loro confronti, il Sinodo invita “a praticare un’accoglienza aperta, ad accompagnarli nella costruzione di un nuovo progetto di vita e a costruire una vera comunione interculturale tra i popoli”. Il tutto nel rispetto “per le tradizioni liturgiche e le pratiche religiose”, come pure per il linguaggio. Ed è in questo contesto che i padri sinodali sottolineano la necessità di combattere razzismo e xenofobia attraverso specifici programmi di formazione pastorale basati “sull’educazione alla cultura del dialogo e dell’incontro”.

Sempre facendo riferimento al tema, il documento si sofferma quindi sui recenti conflitti che hanno causato il flusso di numerosi fedeli dell’Oriente cattolico sull’Est Europa e, “in nome della sinodalità” lancia alle Chiese locali di rito latino l’appello affinché queste “aiutino i fedeli orientali emigrati a preservare la loro identità”, senza subire “processi di assimilazione” (6 c). Sul fronte dell’ecumenismo il testo parla di “processi di pentimento” e “guarigione della memoria” (7 c), e si rilancia la proposta di un martirologio ecumenico (7 o).

Alla sinodalità si affianca la “Missione“, argomento della seconda parte che si sofferma su aspetti più “ad intra” della vita della Chiesa ”. Temi di grande rilievo e importanza e per i quali è necessario che “le comunità cristiane condividano la fraternità con uomini e donne di altre religioni, convinzioni e culture, evitando da una parte il rischio dell’autoreferenzialità e dell’autoconservazione e dall’altra quello della perdita di identità”. Temi che richiedono l’avvento di un nuovo “stile pastorale”, indispensabile, a parere di molti, per rendere “il linguaggio liturgico più accessibile ai fedeli e più incarnato nella diversità delle culture”..
Nel testo si guarda con stupore poi alla ricchezza e alla varietà delle diverse forme di vita consacrata mettendo allo stesso tempo in guardia i figli della Chiesa dal pericolo legato al “perdurare di uno stile autoritario, che non fa spazio al dialogo fraterno” spesso fonte di casi di abuso e violenza e che “richiede interventi decisi e appropriati”. Dai padri sinodali poi la gratitudine ai diaconi “chiamati a vivere il loro servizio al Popolo di Dio in un atteggiamento di vicinanza alle persone, di accoglienza e di ascolto di tutti”, ma anche l’invito a non cadere nel clericalismo che rappresenta la “deformazione del sacerdozio”. Un atteggiamento da contrastare “fin dalle prime fasi della formazione” puntando su “un contatto vivo” con il popolo e i bisognosi. Nel documento si accenna anche all’annoso tema del celibato accompagnato, nel corso dell’assemblea, da valutazioni diverse. Un tema non nuovo – ricorda il testo – di cui “tutti  ne apprezzano il valore carico di profezia e la testimonianza di conformazione a Cristo, ma che richiede di essere ulteriormente ripreso”. Ampia infine la la riflessione sulla figura e sul ruolo del vescovo, chiamato a esercitare la “corresponsabilità”, intesa come il coinvolgimento di tutte le altre componenti interne alla diocesi e al clero. Una partecipazione al ministero episcopale che permetta di alleggerire il “sovraccarico di impegni amministrativi e giuridici” che rischiano di limitare la missione del vescovo che “non sempre trova sostegno umano e supporto spirituale” e  per questo “non è rara l’esperienza sofferta di una certa solitudine”.

La terza parte punta sulla formazione. “Il Santo Popolo di Dio – si legge nel testo – non è solo oggetto, ma è prima di tutto soggetto corresponsabile della formazione” e “la prima formazione, di fatto, avviene in famiglia”. Ed è probabilmente sulla base di uno stile familiare che i padri sinodali invitano coloro che hanno un ministero nella Chiesa, a svolgerlo “con la sapienza dei semplici in un’alleanza educativa indispensabile alla comunità. È questo il primo segno di una formazione intesa in senso sinodale”. Una formazione che tenga conto in primis delle esigenze dei giovani, in particolare nella necessità di “approfondire il tema dell’educazione affettiva e sessuale, per accompagnarli nel loro cammino di crescita”, ma anche “per sostenere la maturazione affettiva di coloro che sono chiamati al celibato e alla castità consacrata”. Nel documento si chiede anche di approfondire il dialogo con le scienze umane. Una collaborazione che permetta di sviluppare tutte quelle “questioni che risultano controverse anche all’interno della Chiesa”: dall’identità di genere e all’orientamento sessuale al fine vita; dalle situazioni matrimoniali difficili alle problematiche etiche connesse all’intelligenza artificiale”. Realtà sempre più presenti che pongono alla Chiesa “domande nuove”, per questo, aggiungono i padri sinodali, “è importante prendere il tempo necessario per questa riflessione e investirvi le energie migliori, senza cedere a giudizi semplificatori che rischiano di ferire le persone e il Corpo della Chiesa”. A tal proposito però, ricordano al tempo stesso che “molte indicazioni sono già offerte dal magistero e che attendono solo di essere tradotte in iniziative pastorali appropriate”. Su questi presupposti giunge quindi dall’Assemblea del sinodo l’invito ad un rinnovato ed “autentico” ascolto nei confronti delle “persone che si sentono emarginate o escluse dalla Chiesa, a causa della loro situazione matrimoniale e dell’identità e sessualità”. Persone che “chiedono di essere ascoltate, accompagnate e rispettate, senza temere di sentirsi giudicate” e nei confronti delle quali ” i cristiani non possono mancare di rispetto per la dignità di nessuna persona.

Dai padri sinodali infine un affondo anche sull’attualità e la diffusione della Cultura digitale. Nella Relazione si incoraggia il popolo di Dio a “raggiungere la cultura attuale in tutti gli spazi in cui le persone cercano senso e amore, compresi i loro telefoni cellulari e tablet”. Un monito dai padri anche sui pericoli presenti nel web, perché internet “può anche causare danni e ferite, ad esempio attraverso bullismo, disinformazione, sfruttamento sessuale e dipendenza”. Per questo, secondo l’Assemblea è importante “riflettere su come la comunità cristiana possa sostenere le famiglie nel garantire che lo spazio online sia non solo sicuro, ma anche spiritualmente vivificante”.

Papa Francesco: “Adorare Dio e amare i fratelli è la grande e perenne riforma della Chiesa”

Dom, 29/10/2023 - 12:38

La Chiesa “non esige mai una pagella di buona condotta”. Non mette al centro “strategie, calcoli umani, mode del mondo, idolatrie moderne” come l’avidità del denaro, il fascino del carrierismo o le “idolatrie camuffate di spiritualità”. Nell’omelia della Messa presieduta nella basilica di San Pietro a conclusione della prima tappa del Sinodo sulla sinodalità – davanti a 5mila persone – Papa Francesco ha consegnato alle madri e ai padri sinodali, in vista del cammino del prossimo anno, la sua idea di Chiesa, al cui centro non ci sono “tante belle idee”, ma due verbi: adorare e servire. “Adorare Dio e amare i fratelli col suo amore, questa è la grande e perenne riforma”, ha spiegato: “Essere Chiesa adoratrice e Chiesa del servizio, che lava i piedi all’umanità ferita, accompagna il cammino dei fragili, dei deboli, degli scartati, va con tenerezza incontro ai più poveri”.

“Amare Dio con tutta la vita e amare il prossimo come sé stessi. Non le nostre strategie, non i calcoli umani, non le mode del mondo, ma amare Dio e il prossimo: ecco il cuore di tutto”,

l’esordio dell’omelia. “Adorare – ha spiegato Francesco – significa riconoscere nella fede che solo Dio è il Signore e che dalla tenerezza del suo amore dipendono le nostre vite, il cammino della Chiesa, le sorti della storia”. “Chi adora Dio rifiuta gli idoli perché, mentre Dio libera, gli idoli rendono schiavi”, il monito del Papa, che ha messo in guardia dal “pensare di controllare Dio, di rinchiudere il suo amore nei nostri schemi”.

“Sempre dobbiamo lottare contro le idolatrie”, l’esortazione di Francesco: “quelle moderne, che spesso derivano dalla vanagloria personale, come la brama del successo, l’affermazione di sé ad ogni costo, l’avidità di denaro – il diavolo entra nelle tasche, non dimentichiamolo – il fascino del carrierismo; ma anche quelle idolatrie camuffate di spiritualità: la mia spiritualità, le mie idee religiose, la mia bravura pastorale”.

“Vigiliamo, perché non ci succeda di mettere al centro noi invece che lui”, il monito: “La Chiesa sia adoratrice: in ogni diocesi, in ogni parrocchia, in ogni comunità si adori il Signore! Perché solo così ci rivolgeremo a Gesù e non a noi stessi; perché solo attraverso il silenzio adorante la Parola di Dio abiterà le nostre parole; perché solo davanti a lui saremo purificati, trasformati e rinnovati dal fuoco del suo Spirito”.

“Non esiste una vera esperienza religiosa autentica che sia sorda al grido del mondo”, il grido d’allarme del Papa a proposito del secondo verbo al centro dell’omelia: “Non c’è amore di Dio senza coinvolgimento nella cura del prossimo, altrimenti si rischia il fariseismo”.

“È un peccato grave sfruttare i più deboli, un peccato grave che corrode la fraternità e devasta la società”,

ha tuonato Francesco:

“Penso a quanti sono vittime delle atrocità della guerra; alle sofferenze dei migranti, al dolore nascosto di chi si trova da solo e in condizioni di povertà; a chi è schiacciato dai pesi della vita; a chi non ha più lacrime, a chi non ha voce. E penso a quante volte, dietro belle parole e suadenti promesse, vengono favorite forme di sfruttamento o non si fa nulla per impedirle”.

“Noi, discepoli di Gesù, vogliamo portare nel mondo un altro lievito, quello del Vangelo”, ha garantito il Papa: “Dio al primo posto e insieme a lui coloro che egli predilige, i poveri e i deboli. Questa è la Chiesa che siamo chiamati a sognare: una Chiesa serva di tutti, serva degli ultimi. Una Chiesa che non esige mai una pagella di buona condotta, ma accoglie, serve, ama. Una Chiesa dalle porte aperte che sia porto di misericordia”. Poi la citazione di San Giovanni Crisostomo: “L’uomo misericordioso è un porto per chi è nel bisogno: il porto accoglie e libera dal pericolo tutti i naufraghi; siano essi malfattori, buoni, o siano come siano, il porto li mette al riparo all’interno della sua insenatura. Anche tu, dunque, quando vedi in terra un uomo che ha sofferto il naufragio della povertà, non giudicare, non chiedere conto della sua condotta, ma liberalo dalla sventura”.

“Che possiamo crescere nell’adorazione di Dio e nel servizio del prossimo. Adorare e servire”, l’augurio finale: “In questa conversazione dello Spirito abbiamo potuto sperimentare la tenera presenza del Signore e scoprire la bellezza della fraternità”, il bilancio del Papa, unito al ringraziamento a quanti hanno reso possibile e partecipato all’assemblea sinodale di questo mese di ottobre: “Ci siamo ascoltati reciprocamente e soprattutto, nella ricca varietà delle nostre storie e delle nostre sensibilità, ci siamo messi in ascolto dello Spirito. Oggi non vediamo il frutto completo di questo processo, ma con lungimiranza possiamo guardare all’orizzonte che si apre davanti a noi: il Signore ci guiderà e ci aiuterà ad essere Chiesa più sinodale e missionaria, che adora Dio e serve le donne e gli uomini del nostro tempo, uscendo a portare a tutti la consolante gioia del Vangelo”.

Sinodo: “La Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto”

Sab, 28/10/2023 - 23:02

La Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, che “vuole ascoltare tutti”, nessuno escluso, e “deve ascoltare con particolare attenzione e sensibilità la voce delle vittime e dei sopravvissuti agli abusi sessuali, spirituali, economici, istituzionali, di potere e di coscienza da parte di membri del clero o di persone con incarichi ecclesiali”. Lo si legge nella Relazione di sintesi della prima fase del Sinodo sulla sinodalità, che ha un carattere transitorio, in attesa dell’assemblea conclusiva in programma nell’ottobre prossimo. Per la prima volta in un Sinodo dei vescovi, tra i 365 membri con diritto di voto (compreso il Papa) hanno votato non solo vescovi, ma anche sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose, e laici, tra cui 54 donne. Tre le parti in cui è strutturato il testo, approvato a larghissima maggioranza, cioè con la maggioranza qualificata dei due terzi. La prima parte delinea “Il volto della Chiesa sinodale”, presentando i principi teologici che illuminano e fondano la sinodalità. La seconda parte, intitolata “Tutti discepoli, tutti missionari”, tratta di tutti coloro che sono coinvolti nella vita e nella missione della Chiesa e delle loro relazioni. Nella terza parte, dal titolo “Tessere legami, costruire comunità”, la sinodalità appare principalmente come un insieme di processi e una rete di organismi che consentono lo scambio tra le Chiese e il dialogo con il mondo. In ciascuna delle tre parti, ogni capitolo raccoglie le convergenze, le questioni da affrontare e le proposte emerse dal dialogo.

Diaconato femminile. Uno dei temi più controversi al Sinodo sulla sinodalità è stato quello dell’accesso delle donne al ministero diaconale. Il relativo paragrafo del documento, infatti, ha registrato il maggior numero di “no”, rispetto alle questioni da affrontare, dai 365 votanti: 69 no contro 277 sì. “Alcuni considerano che questo passo sarebbe inaccettabile in quanto in discontinuità con la Tradizione”, si spiega nel testo: “Per altri, invece, concedere alle donne l’accesso al diaconato ripristinerebbe una pratica della Chiesa delle origini. Altri ancora discernono in questo passo una risposta appropriata e necessaria ai segni dei tempi, fedele alla Tradizione e capace di trovare eco nel cuore di molti che cercano una rinnovata vitalità ed energia nella Chiesa. Alcuni esprimono il timore che questa richiesta sia espressione di una pericolosa confusione antropologica, accogliendo la quale la Chiesa si allineerebbe allo spirito del tempo”. Il dibattito a riguardo, si fa notare nella relazione, “è anche connesso alla più ampia riflessione sulla teologia del diaconato”. “Le Chiese di tutto il mondo hanno formulato con chiarezza la richiesta di un maggiore riconoscimento e valorizzazione del contributo delle donne e di una crescita delle responsabilità pastorali loro affidate in tutte le aree della vita e della missione della Chiesa”, uno dei risultati del dibattito sinodale: di qui la necessità di chiedersi “come la Chiesa può inserire più donne nei ruoli e nei ministeri esistenti” e interrogarsi sulle “modalità” di eventuali “nuovi ministeri”. Tra le proposte alle Chiese locali, quelle di “allargare il loro servizio di ascolto, accompagnamento e cura alle donne che nei diversi contesti sociali risultano più emarginate” e “garantire che le donne possano partecipare ai processi decisionali e assumere ruoli di responsabilità nella pastorale e nel ministero”, sulla scia di quanto il Papa ha fatto inserendo un numero significative di donne in posizioni di responsabilità nella Curia Romana. “Clericalismo, maschilismo e un uso inappropriato dell’autorità continuano a sfregiare il volto della Chiesa e danneggiano la comunione”, il monito, insieme a quello di “evitare di ripetere l’errore di parlare delle donne come di una questione o un problema”.

Celibato sacerdotale. Tra i membri votanti al Sinodo, 55 su 291 non ritengono che il celibato sacerdotale sia da mettere in discussione. “Tutti ne apprezzano il valore carico di profezia e la testimonianza di conformazione a Cristo”, si legge nel testo: “alcuni chiedono se la sua convenienza teologica con il ministero presbiterale debba necessariamente tradursi nella Chiesa latina in un obbligo disciplinare, soprattutto dove i contesti ecclesiali e culturali lo rendono più difficile. Si tratta di un tema non nuovo, che richiede di essere ulteriormente ripreso”. Quanto al diaconato permanente, “alcune Chiese locali non l’hanno introdotto affatto; in altre, si teme che i diaconi vengano percepiti come una sorta di rimedio alla carenza di preti. Talvolta la loro ministerialità si esprime nella liturgia piuttosto che nel servizio ai poveri e bisognosi della comunità”.

Orientamento sessuale. “Approfondire il tema dell’educazione affettiva e sessuale, per accompagnare i giovani nel loro cammino di crescita e per sostenere la maturazione affettiva di coloro che sono chiamati al celibato e alla castità consacrata”. E’ una delle indicazioni della Relazione di sintesi, in cui non compare mai il termine LBGT, contenuto nell’Instrumentum laboris, ma si parla di “orientamento” sessuale.  “Alcune questioni, come quelle relative all’identità di genere e all’orientamento sessuale, al fine vita, alle situazioni matrimoniali difficili, alle problematiche etiche connesse all’intelligenza artificiale, risultano controverse non solo nella società, ma anche nella Chiesa, perché pongono domande nuove”, si legge nel testo, in cui si riconosce che “talora le categorie antropologiche che abbiamo elaborato non sono sufficienti a cogliere la complessità degli elementi che emergono dall’esperienza o dal sapere delle scienze e richiedono affinamento e ulteriore studio”. Del resto, come aveva ricordato il Papa nel suo breve intervento a braccio a conclusione della ventesima Congregazione generale, “il protagonista del Sinodo è lo Spirito Santo”.

 

“E la festa continua!” di Robert Guédiguian e “Firebrand” di Karim Aïnouz

Sab, 28/10/2023 - 09:41

Un cinema di respiro sociale, direzionato alle periferie e ai diritti degli ultimi. È quello del regista francese Robert Guédiguian, che alla 18a Festa del Cinema di Roma presenta “Et la fête continue!” (“E la festa continua!”), dove ritroviamo la sua comunità di attori-famiglia: dalla moglie Ariane Ascaride ai fidati Jean-Pierre Darroussin e Gérard Meylan, senza dimenticare la città di Marsiglia. L’opera ricorda un tragico fatto di cronaca avvenuto nel 2018, il crollo di due palazzine in rue d’Aubagne, allargando poi lo sguardo sul valore della memoria, delle radici culturali armene, sulla condizione di poveri e migranti come pure sull’importanza della partecipazione politica. Un film che fonde tonalità drammatiche con note di sentimento e ironia brillante. Ancora, alla Festa del Cinema c’è anche il film “Firebrand” del brasiliano Karim Aïnouz, intenso ritratto di Catherine Parr, sesta moglie del sovrano Enrico VIII nell’Inghilterra del Cinquecento. Sulle rotte della Storia, il regista compone un grintoso affresco femminista. Ottime le prove di Alicia Vikander e di Jude Law, che imprimono vigore e pathos a un film non sempre centrato. Il punto Cnvf-Sir. 

“Et la fête continue!” 

Il francese Robert Guédiguian si conferma ancora una volta un autore-avamposto sociale, capace di raccontare con il suo cinema colto ed elegante angoli periferici del nostro presente, ma anche storie di famiglie e comunità solidali. Tra i suoi titoli più recenti “La casa sul mare” (2017, Premio Signis a Venezia74) e “Gloria mundi” (2019, Coppa Volpi miglior attrice per Ariane Ascaride a Venezia76). A Roma presenta ora “Et la fête continue!” (“E la festa continua!”), opera corale scritta insieme Serge Valletti che ricorda un tragico fatto di cronaca avvenuto nel 2018 a Marsiglia. Nel cast, oltre all’immancabile città di Marsiglia, figurano sempre Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin e Gérard Meylan insieme a Lola Naymark, Robinson Stévenin, Grégoire Leprince-Ringuet e Alice Da Luz Gomes. Il film sarà nei cinema con Lucky Red.

La storia. Marsiglia, oggi. L’infermiera Rosa, prossima alla pensione, è un punto di riferimento nel quartiere dove abita, occupandosi soprattutto di chi versa in condizioni di disagio. Pronta a candidarsi alle elezioni amministrative, Rosa rimane spiazzata dalla (ri)scoperta dell’amore: conosce un libraio in pensione, che le rivolge tenerezze dimenticate, essendo da tempo vedova. Rosa è instancabile anche in famiglia, pronta ad accorrere alle richieste dei due figli e delle loro famiglie. Sullo sfondo, l’impegno per non dimenticare le vittime della tragedia in rue d’Aubagne, il crollo di due palazzi…

Robert Guédiguian compone un’opera sociale densa di temi e diritti, ma anche di sentimento. Il film “Et la fête continue!” ruota attorno al personaggio di Rosa, che il regista ha cesellato ancora una volta per la moglie Ariane Ascaride, attrice di grande fascino ed eleganza. Rosa è capofila in una comunità-quartiere di ultimi, che lei ascolta e stimola alla resilienza. È una “pasionaria” con il sorriso, che si muove tra le corsie dell’ospedale o nelle vie di Marsiglia determinata ad attivare un cambiamento. Una donna che non si arrende allo status quo, e su cui poggia saldo anche un articolato equilibrio familiare, tra il fratello tassista latin lover (Gérard Meylan) e due figli premurosi (Robinson Stévenin e Grégoire Leprince-Ringuet). Attraverso il personaggio di Rosa il regista Guédiguian tratteggia anche le sfumature di un amore adulto, tra due pensionati sessantenni, che si autorizzano a provare ancora sentimenti ed emozioni sopiti.

Altro personaggio chiave è Marsiglia, città natale di Guédiguian e ambientazione ricorrente nei suoi film. Marsiglia è il crocevia di un’umanità varia, multietnica, dove si alternano affanni, problemi ma anche diffusi gesti di solidarietà. Il regista firma un’opera sì di denuncia, ma marcata da garbo e ironia dolce: evidenzia le ferite del tessuto sociale, ma non le urla mai. Affida i piccoli, grandi, drammi del quotidiano ai personaggi, che si fanno portatori ciascuno di una linea tematica: dalla questione dell’identità e custodia delle origini armene al diritto a una condizione abitazione dignitosa per i cittadini in difficoltà, alle conseguenze della pandemia sulla vita di medici, infermieri e personale sanitario, esasperati da ritmi inclementi.

Guédiguian governa il racconto, i tanti temi in campo, con abile controllo e attenzione, evitando che i toni deraglino in chiave disperante. Realizza un’opera di impegno civile confezionata con sentimento e poesia, mai impetuosa. Forse non tutto è ben amalgamato, ma nel complesso le intenzioni dell’autore sono chiare come pure la resa, la qualità della narrazione. “Et la fête continue!” è consigliabile, problematico, per dibattiti.

“Firebrand”

Presentato in Concorso al 76° Festival di Cannes, il film inglese “Firebrand” del regista Karim Aïnouz sbarca sul tappeto rosso della 18a Festa del Cinema di Roma. Un dramma storico che prende le mosse dal romanzo “La mossa della regina” di Elizabeth Fremantle, che ricostruisce la figura della nobile Catherine Parr, finita in sposa al dispotico re inglese Enrico VIII. Una donna apparentemente schiacciata dall’ingombrante presenza del marito, ma in verità pronta a correre il rischio dell’affermazione di sé, di un pensiero libero. Scritto da Henrietta e Jessica Ashworth, il film ha come protagonisti il Premio Oscar Alicia Vikander e Jude Law, quest’ultimo irriconoscibile in un ruolo nero, percorso da lampi di umoralità e violenza.

La storia. Inghilterra, reggenza Tudor. Negli ultimi anni del regno di Enrico VIII, poco prima della sua morte nel 1547, la sesta moglie Catherine Parr si adopera al suo meglio per non incorrere nelle ire del marito, occupandosi dei figli dell’uomo (lei non riesce ad averne) e al contempo portando avanti segretamente una ribellione di pensiero contro le rigide regole imposte da corona e religione. Quando va a fare visita a una sua vecchia amica, una predicatrice che incita a tradurre la Bibbia perché possa essere più accessibile alla gente, Catherine finisce nel mirino di pericolose accuse: eresia e tradimento…

“Non potrei essere più entusiasta – sottolinea il regista Karim Aïnouz – di raccontare la storia di Catherine Parr, una donna brillante, illuminata, emancipata, che mi ha ispirato profondamente. Una donna che è stata in gran parte ignorata, o certamente poco rappresentata, nella storia inglese dei Tudor. Si sa molto del regno tirannico di Enrico VIII, si sa molto del re stesso e di coloro che sono morti per mano sua, ma la mia attenzione si è concentrata su una donna che non solo è riuscita a sopravvivere, ma anche a trionfare”.

Un film storico, “Firebrand”, quasi tutto girato in pochi ambienti – negli interni di un castello medievale inglese e nella campagna circostante –, che esplora in verità le stanze interiori dei personaggi, in particolare della sovrana “ribelle” Catherine Parr. Il regista brasiliano Aïnouz segue con attenzione la traiettoria di una questa donna, nobile e colta, che cerca di resistere come meglio può alle tempeste umorali del marito Enrico VIII e al maschilismo imperante a corte. Una donna che coltiva letture, ambizioni, un libero pensiero, che puntualmente viene messo alla prova dalla rigida cultura del tempo. La forza del racconto poggia tutta sulle interpretazioni di Alicia Vikander e Jude Law, che sagomano con intensità e vigore i personaggi; accanto a loro validi i comprimari Eddie Marsan, Sam Riley, Ruby Bentall e Bryony Hannah. A bene vedere, però, “Firebrand” risulta memorabile quasi unicamente per le interpretazioni piuttosto che per la regia e la scrittura. L’opera non sempre appare compatta, ancorata a una chiara traiettoria. Da sottolineare la qualità della messa in scena e delle musiche originali di Dickon Hinchliffe. “Firebrand” è complesso, problematico, per dibattiti.

Striscia di Gaza: “La notte peggiore” della parrocchia latina. L’appello alla pace dei cristiani di Gaza

Sab, 28/10/2023 - 09:38

“Stiamo tutti bene, è un miracolo del Signore”: è il breve e rassicurante messaggio arrivato al Sir questa mattina dalla parrocchia latina della Sacra Famiglia di Gaza, dove attualmente sono rifugiate 700 persone, tra di loro anche anziani, persone malate, ferite e disabili gravi. Nella serata di ieri, come confermato al Sir dal vicario della Custodia di Terra Santa, padre Ibrahim Faltas, Israele aveva tagliato le comunicazioni isolando di fatto tutta la Striscia mentre erano in corso dei raid aerei a copertura di una serie di ‘attacchi’ di terra condotti con truppe e carri armati dell’Esercito nella parte orientale di Gaza, soprattutto nel settore settentrionale, dal campo profughi di Jabaliya a Bet Lahiya e Bet Hanun, nella Striscia centrale e a Khan Yunis, nel sud. La giornata di venerdì, 27 ottobre, voluta da Papa Francesco per pregare e digiunare per la pace è diventata così anche quella più combattuta, “la notte peggiore” fanno sapere i parrocchiani, dall’inizio della guerra.

Parrocchia Sacra Famiglia, Gaza (Foto Parrocchia latina)

L’appello della parrocchia. Dalla chiesa, nella veglia serale di ieri, le 8 religiose presenti in parrocchia (suore del Rosario, suore del Verbo incarnato e missionarie della carità, ndr.) avevano lanciato, a nome della comunità cristiana di Gaza, un appello per la pace: “La situazione in tutta Gaza è critica, con bombardamenti che si verificano senza sosta. In tutta la Striscia, manca di tutto, dall’acqua, cibo, carburante, medicine, cappotti. Preghiamo senza sosta per la pace, per la fine della guerra e affinché possano entrare tutti gli aiuti per tutti i bisognosi, che siano a nord o a sud di Gaza. Mentre ringraziamo per la vicinanza del Santo Padre, ringraziamo, nella sua persona, tutti coloro che pregano e lavorano per la Pace. Vogliamo pregare la Vergine insieme a tutta la comunità questa preghiera tanto amata da tutti i nostri bambini: ‘sotto il tuo sostegno ci poniamo Santa Madre di Dio’ con un’antifona in arabo che dice: Signore della pace, donaci la pace, metti nel nostro cuore la pace. Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio. Non ignorare le nostre richieste che hanno bisogno di te, ma liberaci sempre da tutti i pericoli, o gloriosa Vergine benedetta”. All’appello è seguita la recita della preghiera semplice di san Francesco, “Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace”.

(Foto AFP/SIR)

La notte più lunga. Di lì a poco, raccontano dalla parrocchia, il ritorno in chiesa per timore dei bombardamenti. “Ci siamo rifugiati in chiesa perché temiamo che bombarderanno vicino il complesso parrocchiale. Siamo tutti in piedi, svegli. Sentiamo spari e bombe all’esterno della parrocchia”: era stato il messaggio al Sir nel corso di un breve contatto telefonico che parlava di “una notte lunga con bombardamenti sono in corso”. Poi l’interruzione della comunicazione. Fino a poco fa: “Stiamo tutti bene e questo è un miracolo del Signore” è stato il nuovo contatto, rassicurante, di stamattina.

 

Un’Esortazione apostolica per meditare la fiducia nell’amore misericordioso di Dio

Sab, 28/10/2023 - 09:26

Nel 150° anniversario della nascita di Teresa del Bambino Gesù, papa Francesco consegna alla Chiesa l’Esortazione Apostolica C’est la confiance che – ripercorrendo le opere principali della santa – gli offre l’opportunità per una nuova riflessione sulla fiducia nell’amore misericordioso di Dio.

Famosa per la sua “piccola via”, la Santa di Lisieux insegna ancora una volta ad apprezzare quella che Paolo definiva la strada migliore di tutte, quella della carità (n. 14). Essa, scrive Teresa, è “madre e radice di ogni virtù”, perché è il più grande dono dello Spirito Santo (n. 30). “La Storia di un’anima è una testimonianza di carità, in cui Teresina ci offre un commentario circa il comandamento nuovo di Gesù: Che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati ( Gv 15,12). Gesù ha sete di questa risposta al suo amore” (n. 31).

La giovane carmelitana è tra i santi più conosciuti del mondo e il suo messaggio è parte del tesoro spirituale della Chiesa (n. 4); ritenuta una grande esperta della scientia amoris è guida per tutti, soprattutto per i teologi (n. 7) e rappresenta una figura tra le più significative per l’umanità contemporanea, come la definì l’Unesco (n. 4). Talvolta però le espressioni tratte dai testi del “Dottore della Sintesi”, come la chiama il Papa, sono citazioni secondarie del suo pensiero, temi che Teresa ha in comune anche con qualunque altro santo. Si trascura che “ella ha la capacità di portarci al centro, a ciò che è essenziale, a ciò che è indispensabile”, perché possiede un genio piuttosto sintetico (n. 49). Così l’Esortazione Apostolica focalizza il suo insegnamento sul tema dell’amore, che – come scrive Teresa stessa – fa agire le membra della Chiesa, perché “alla fine conta solo l’Amore” (n. 48). In quell’amore, che è misericordioso e infinito (n. 29), deve essere riposta ogni fiducia.

Sono temi molto cari a papa Francesco, che già in Misericordia et misera, a conclusione del Giubileo straordinario del 2016 scriveva: “Teniamo aperto il cuore alla fiducia di essere amati da Dio. Il suo amore ci precede sempre, ci accompagna e rimane accanto a noi nonostante il nostro peccato” (MM, 5).

E anche in Evangelii Gaudium – di cui celebriamo quest’anno il decimo anniversario – il Papa aveva scritto che la Chiesa “in uscita” quale comunità evangelizzatrice, comunità di discepoli missionari, quotidianamente sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr 1 Gv 4,10). Per questo ogni comunità ecclesiale sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, sa andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. La Chiesa vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, perché per prima ha sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva (cfr. EG 24).

L’insegnamento di Teresa mostra come lungo la sua breve vita abbia compreso che ogni incontro autentico con Cristo suscita e chiama alla missione (n. 9). La giovane santa francese, infatti, non concepiva la sua consacrazione a Dio senza la ricerca del bene dei fratelli. Per Teresa Dio risplende prima di tutto attraverso la sua misericordia, chiave di comprensione di qualunque altra cosa che si dica di Lui (n. 27). E scrive: «A me Egli ha donato la sua misericordia infinita ed è attraverso essa che contemplo e adoro le altre perfezioni Divine». Più volte nei suoi scritti racconta di condividere l’amore misericordioso del Padre per il figlio peccatore e quello del buon pastore per le pecore perdute, lontane, ferite.
Da questa profonda comprensione per la misericordia divina ha attinto la luce della sua illimitata speranza (n. 27), perché “La fiducia deve condurci all’Amore”. Solo chi si affida al Signore può vivere anche nell’oscurità la fiducia totale del bambino che si abbandona senza paura tra le braccia del padre e della madre.

Il prossimo Giubileo a cui la Chiesa si sta preparando, scriveva il Papa lo scorso anno “potrà favorire molto la ricomposizione di un clima di speranza e di fiducia, come segno di una rinnovata rinascita di cui tutti sentiamo l’urgenza” (Lettera dell’11 febbraio 2022). Il pontefice più volte ha ribadito che nella Chiesa si è diffusa un’idea pelagiana di santità, individualista ed elitaria, più ascetica che mistica, che pone l’accento principalmente sullo sforzo umano.

Perciò, in questo tempo di preparazione all’anno Santo, Francesco ripropone come modello la spiritualità di Teresa, che nelle sue opere sottolinea sempre il primato dell’azione di Dio, della sua grazia. E arrivava a scrivere alla sorella Paolina: “Sento sempre la stessa audace fiducia di diventare una grande Santa, perché non faccio affidamento sui miei meriti, visto che non ne ho nessuno, ma spero in Colui che è la Virtù, la Santità stessa: è Lui solo che, accontentandosi dei miei deboli sforzi, mi eleverà fino a Lui e, coprendomi dei suoi meriti infiniti, mi farà Santa”.

Sinodo: Ruffini, “presentati 1125 modi collettivi e 126 modi individuali alla relazione di sintesi”

Ven, 27/10/2023 - 17:04

Ieri sono stati presentati 1125 “modi” collettivi (cioè presentati collettivamente dai 35 Circoli Minori) e 126 “modi”  individuali alla relazione di sintesi con cui si concluderà, con il voto di domani sera, la prima sessione del Sinodo sulla sinodalità, in attesa della fase conclusiva dell’ottobre prossimo. A renderlo noto ai giornalisti, durante il briefing odierno in sala stampa vaticana, è stato Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede e presidente della Commissione per l’informazione. “Verranno tutti presi in considerazione, nel lavoro di lettura e di scrittura ancora in corso”, ha assicurato Ruffini, precisando che “gli esperti lavoreranno anche di notte per la versione aggiornata della relazione di sintesi”. “Anzitutto – ha precisato il prefetto – verranno accolti i modi che hanno registrato il più largo consenso, per una collocazione nel testo aggiornato”. Questo è infatti il lavoro della Commissione per la relazione di sintesi, chiamata ad approvare il testo a maggioranza assoluta, pari cioè ai due terzi dei componenti. Domani mattina in Aula Paolo VI non ci sarà la Congregazione generale, poiché il testo della relazione di sintesi verrà consegnato ai membri del Sinodo a metà della mattinata, in inglese e in italiano. Nel pomeriggio, alle 15.30, si svolgerà la Congregazione generale per la votazione del testo, tramite il voto elettronico su ogni singolo paragrafo.  “Stamattina è stata fatta una simulazione di voto – ha detto Ruffini – ed è stata ricordata e ribadita la segretezza del voto, favorita anche da un sistema criptato dei dati rilevati per impedire il riconoscimento di chi ha dato il voto”. Sul tablet, quindi, di ciascun votante apparirà il numero di ogni capitolo e di ogni paragrafo, contrassegnato da una lettera dell’alfabeto. Ognuno dovrà esprimersi per un “sì” o un “no” a ciascun paragrafo, che dovrà essere approvato con la maggioranza qualificata dei due terzi. Non è consentita l’astensione.  Il Sinodo si concluderà domenica 29 ottobre, con la Messa nella basilica di San Pietro alle 10, presieduta dal Papa. Stamattina, intanto, erano presenti in Aula Paolo VI 320 persone. Dopo la preghiera e la prima discussione nei Circoli Minori, ci sono stati gli interventi liberi dedicati alle domande, ai suggerimenti e alle proposte per la fase successiva del Sinodo, con alcune informazioni in materia. Stasera alle 18 la preghiera per la pace nella basilica di San Pietro, con il Rosario e l’adorazione eucaristica, in occasione della Giornata di digiuno, penitenza e preghiera per implorare la pace nel mondo, indetta da Papa Francesco.

“E’ necessario un grande cammino della Chiesa per trovare un linguaggio nuovo, soprattutto nel mondo digitale e nel linguaggio liturgico, che è assolutamente desueto per i giovani”.

Lo ha detto madre Ignazia Angelini, badessa dell’Abbazia di Viboldone e assistente spirituale al Sinodo, rispondendo alle domande dei giornalisti. “Conversione”: è questa, secondo la religiosa, la parola d’ordine per il periodo che ci separa dall’assemblea conclusiva dell’ottobre prossimo: “bisogna coinvolgere le Chiese locali e cercare nuovi linguaggi e nuovi luoghi per colmare l’assenza dei giovani dalle liturgie e dai momenti associativi”. “I giovani hanno bisogno  di raccontarsi”, ha detto madre Ignazia descrivendo le sue percezioni al Sinodo, dove non aveva né diritto di parola né di voto: “I giovani presenti al Sinodo hanno colto con serietà il problema. Loro e i loro coetanei devono essere non soltanto ascoltati, ma inclusi in contesti di discernimento, di letture della storia e nei processi decisionali”. Madre Angelini, parlando della sua esperienza di badessa “ai margini di una grande città come Milano, in una periferia però profondamente inserita nel vissuto ecclesiale e sociale”, ha definito il Sinodo “un evento molto significativo, quasi rivoluzionario, che ha significato un cambio di passo nella vita della Chiesa per la sua pervasività e per la capacità di ascolto delle differenze”. “Tutto ciò – ha rivelato – ci ha permesso di guardare alla realtà in un momento della storia segnato da una complessità e una indecifrabilità terribile, che chiede alle fede una prospettiva più alta, quella della presenza di Dio  che si fa carne nella storia in un momento in cui la storia è tormentata. Il fatto che vescovi, cardinali, laici e religiose dalle esperienze e provenienze più diverse e delle culture più lontane abbiano trovato un luogo per confrontarsi, per pregare insieme e trovare visioni di futuro è stato per me innovativo. L’importante è vedere come il cammino andrà avanti, affinché quella che abbiamo vissuto non resti un’esperienza bella ma autoreferenziale”.

“Molte persone temono il metodo sinodale perché non lo capiscono”.

Lo ha detto padre Timothy Radcliffe, assistente spirituale al Sinodo, rispondendo alle domande dei giornalisti. “Quando le persone guardano al Sinodo come ad un dibattito politico, capiscono male e lo temono perché credono possa produrre divisioni e scismi, mentre il suo obiettivo è proprio l’opposto: un evento di preghiera e di fede”, ha spiegato il religioso. “Molte persone vedono questo Sinodo con grandissime aspettative in termini di cambiamenti, e guardano a noi per capire come cambierà il futuro della Chiesa”, ha argomentato Radcliffe: “Non stanno cercando cosa giusta: ci stiamo chiedendo come possiamo essere Chiesa in un modo nuovo, piuttosto che prendere decisioni specifiche”.

“Nella Chiesa possiamo andare controcorrente”:

così frere Alois Loeser, priore della Comunità di Taizé, ha descritto il clima sinodale. “I giovani vogliono andare oltre queste frontiere, vogliono capire tutte le culture e sono rispettosi dei diversi modi di esprimere la fede. Nella Chiesa dobbiamo trovare un modo ancora più chiaro di vivere insieme nella diversità. Questo Sinodo è stato un enorme passo avanti nell’essere all’ascolto in semplicità”.

 

 

Cyber attacchi. Della Morte (Università Cattolica): “Ancora complesso applicare il diritto internazionale”

Ven, 27/10/2023 - 10:34

Se uno Stato subisce un attacco armato da un altro Stato, la reazione per legittima difesa è prevista e codificata dal diritto internazionale. Ma nel caso in cui l’attacco colpisca i server delle forze armate o della sanità, si può rispondere ricorrendo all’uso della forza “tradizionale” (ovvero cinetica e non cibernetica)? L’interrogativo è fortemente attuale oggi che assistiamo agli attacchi di cyber terrorismo in vari scenari di crisi. Prima per il conflitto in Ucraina, poi per quello in Medio Oriente, la guerra ha assunto nuove connotazioni che provocano comunque dei danni, mantenendo nascosti i responsabili e i loro mandanti. Al Sir, il professor Gabriele Della Morte, ordinario di diritto internazionale e membro dell’Humane Technology Lab dell’Università Cattolica di Milano, spiega come sia una materia in cui le variabili da valutare sono tante e complesse.

Professore, i cyber attacchi prima per il conflitto in Ucraina e poi in Israele come vengono definiti dal diritto internazionale?
Il cyber attacco è un’operazione digitale che produce effetti assimilabili a quelli cinetici, ovvero la distruzione di obiettivi o comunque la diminutio della forza nemica nel contesto di un conflitto fra due parti. La più precisa definizione di cyber attacco non è ancora codificata da convenzioni internazionali ma da uno studio, il cosiddetto manuale Tallin, redatto da un gruppo di ricerca finanziato dalla Nato che si è interrogato su quali fossero le frontiere riguardo ai mezzi (armi) e ai metodi di guerra (tecniche e strategie) cibernetiche. Ai sensi del manuale, un cyberattacco consiste in un’operazione cyber, di carattere offensivo o difensivo, che può ragionevolmente causare la morte o danni a persone o cose. In altri termini, esistono situazioni in cui delle tecnologie che possono avere un uso civile in un contesto di pace potrebbero avere invece un uso militare in un contesto di guerra. Per fare qualche esempio, disattivare le comunicazioni radio o internet della parte nemica, sabotare una diga o una centrale nucleare, ha un’incidenza su una strategia di conflitto. Ed è in questi casi che si pone il dilemma se le tradizionali categorie del diritto internazionale possano essere adattabili anche in un contesto non cinetico.

Non c’è ancora chiarezza al riguardo?
Davanti a noi abbiamo due aspetti del problema. Il primo è quello dello jus in bello, che pone il quesito se le Convenzioni dell’Aia e di Ginevra – il cosiddetto diritto umanitario – trovino applicazione in un contesto non cinetico. Il secondo, quello dello jus ad bellum, concerne la possibilità di adoperare la forza in risposta ad un attacco armato per legittima difesa. Se si subisce un attacco armato tradizionale (così come previsto dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite), si reagisce per legittima difesa. Ma nel caso in cui l’attacco sia cibernetico si può rispondere con la forza?

Ed è possibile rispondere a queste domande?
È ancora molto complesso. Nel primo caso, il diritto internazionale umanitario trova applicazione per limitare gli effetti della guerra. Le norme infatti sono costruite intorno a due poli. Il primo è il principio di distinzione, che impone di discernere tra obiettivi legittimi perché militari, da un lato, e illegittimi perché civili, dall’altro. Il problema di applicare queste norme, nel caso in cui venga praticato un attacco cyber, è che la tecnologia può avere effetti sui militari ma anche sui civili. L’altro polo è il principio proporzionalità. Nel caso di forza cinetica è facile valutare la proporzionalità, ma nel caso di un cyber attacco, come per esempio un malware che impiega anni a causare tutti gli effetti dannosi, come è possibile applicare il principio di proporzionalità? Rispettare i principi di distinzione e proporzionalità può rivelarsi in tali contesti un’operazione molto complicata.

E quanto alla legittima difesa, è possibile ricorrervi in caso di cyber attacco?
Ci sono diverse questioni che si accavallano. In primo luogo, qual è la soglia di gravità che occorre superare per qualificare il cyber attacco quale attacco armato e quindi consentire di agire in legittima difesa? Altro problema è: a quali parametri si può fare ricorso nell’attribuzione di un cyber attacco a un determinato Stato? Per fare un esempio, potrebbe essere arduo dimostrare che un gruppo di cyber-warriors, come Anonymous, agisca sotto il controllo di un determinato Stato e quindi rispondere per legittima difesa secondo le norme tradizionali del diritto internazionale. Anche perché i cyber attacchi possono essere ubiqui, provenire cioè da diversi posti diversi.

L’Italia come ha regolato finora queste eventualità?
Il tema è molto attuale. Nel 2021, il ministero della Esteri, in collaborazione con la Presidenza del consiglio dei ministri e il ministero della Difesa, ha prodotto un position paper che dà delle indicazioni ma lascia ancora degli spazi aperti. Inoltre, la direttiva Nis II dell’Unione europea, che è stata appena approvata e deve ricevere applicazione in Italia entro l’ottobre 2024, impone la messa in sicurezza di tutta una serie di strutture strategiche contro possibili cyber-intrusioni. Ci si rende conto che ormai alcune questioni di sicurezza hanno a che fare anche con la sicurezza numerica e non solo tradizionale.

Alla Festa del Cinema “Misericordia” di Emma Dante e “Cottontail” di Patrick Dickinson

Ven, 27/10/2023 - 10:23

Terza regia cinematografica per Emma Dante. Alla 18a Festa del Cinema di Roma la drammaturga palermitana presenta “Misericordia”, adattamento della sua omonima opera teatrale del 2020. Uno sguardo intenso e livido su un giovane orfano, Arturo, cresciuto da una comunità di prostitute in un mondo popolato da uomini miseri e predatori. La regista di “Via Castellana Bandiera” e “Le sorelle Macaluso” firma un’opera fosca e dolente, rischiarata dalla tenerezza e dalla solidarietà di queste donne che proteggono il giovane Arturo dalla corruzione del mondo. Ottime le interpretazioni di Simone Zambelli e Simona Malato. È invece un’opera prima il dramma familiare “Cottontail” del britannico Patrick Dickinson con protagonista l’attore giapponese Lily Franky, tra gli interpreti di riferimento del cinema di Hirokazu Kore’eda. È la storia di un viaggio padre-figlio, dal Giappone all’Inghilterra, per dare sepoltura alla moglie scomparsa. Un esordio controllato, marcato da poesia. Il punto Cnvf-Sir.

“Misericordia” (Cinema, 16.11)

La regista palermitana Emma Dante dopo essersi imposta in maniera riconoscibile sulla scena teatrale, da ormai un decennio ha avviato anche fruttuose incursioni nel cinema. Nel 2013, infatti, partecipava in Concorso alla 70a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia con “Via Castellana Bandiera”, conflitto sociale al femminile con Elena Cotta (Coppa Volpi miglior attrice) e Alba Rohrwacher; nel 2020 di nuovo in Concorso a Venezia con “Le sorelle Macaluso”, struggente cronaca familiare al femminile, diario di un gruppo di sorelle piegate dalla tragedia e disperse dalla vita. Protagoniste Donatella Finocchiaro e Simona Malato. A distanza di tre anni, la drammaturga partecipa alla 18a Festa del Cinema di Roma con il suo nuovo film, “Misericordia”, ancora una trasposizione da un suo testo teatrale. Protagonisti Simone Zambelli, Simona Malato, Tiziana Cuticchio, Milena Catalano e Fabrizio Ferracane. Sarà nei cinema dal 16 novembre con Teodora Film.
La storia. Costa siciliana oggi, una prostituta che ha appena dato alla luce un bambino, Arturo, viene percossa fino alla morte. Il piccolo viene accudito e cresciuto dalle amiche della madre, anche loro prostitute, all’interno di una comunità-accampamento dove regna sì il degrado e il disordine, ma anche una certa tenerezza. Arturo, che nel tempo manifesta anche una disabilità mentale, cresce comunque nell’affetto sotto gli occhi premurosi di Nuzza, Bettina ed Anna. Quando le pressioni e le crudeltà del loro sfruttatore si fanno più insistenti, le donne si interrogano su come portar via Arturo da quel luogo malato…
Emma Dante colpisce duro, tratteggiando un racconto amaro, amarissimo, dove le donne sono sfruttate, violate, oggetto di desiderio e possesso, mentre gli uomini sono quasi tutti feroci predatori, volti miseri e grigi. Lì, in mezzo a quello scenario disgraziato, da fine del mondo, un bambino porta tracce di innocenza e candore. L’orfano Arturo si muove nella baraccopoli con sguardo giocoso e sognante. E nonostante le sue membra crescano rapidamente, l’animo di Arturo rimane bambino, complice la disabilità. Arturo sembra così un “fanciullino musico”, richiamando Pascoli, portatore di lampi di speranza là dove non sembra esserci più nulla, in una terra abitata da corruzione e rassegnazione.
La regista Emma Dante compone un affresco umano tragico, disperante, dove l’unica nota luminosa è affidata al legame materno-protettivo che queste tre prostitute – Nuzza, Bettina e Anna – dimostrano verso Arturo, quel figlio lasciato in dote da una di loro spezzata dalla strada, da uomini avidi. “Misericordia” è un film che accosta (neo)realismo e denuncia, con inserti qua e là di poesia livida. L’opera possiede di certo carattere, stile e spessore, anche se la regia della Dante risulta meno compatta e a fuoco rispetto ai titoli precedenti. Ottime le interpretazioni, soprattutto di Zambelli e Malato. Film complesso, problematico, per dibattiti.

(Foto Ufficio stampa)

“Cottontail”

Un viaggio della speranza sulle note del lutto. È questo il tracciato del film anglo-giapponese “Cottontail”, opera prima del britannico Patrick Dickinson. Protagonista è Lily Franky, attore visto nei principali successi del regista nipponico Hirokazu Kore’eda, “Father and Son” (2013) e “Un affare di famiglia” (2018). Nel cast anche Ciarán Hinds, Ryo Nishikido, Tae Kimura, Rin Takanashi e Aoife Hinds. “Cottontail” è un film che mette a tema la morte, il lutto, il legame padre-figlio e il cammino di riconciliazione con la vita.
La storia. Tokyo oggi, Kenzaburo è un uomo sulla sessantina appena rimasto vedovo: ha perso l’amore della sua vita, Akiko, dopo una lunga malattia invalidante. Come ultimo desiderio la donna ha chiesto che le sue ceneri vengano sparse nelle acque del lago Windermere in Inghilterra. Sofferente e incapace di affrontare la situazione, Kenzaburo si accorda con il figlio trentenne per esaudire le ultime volontà di Akiko. Partono così per l’Inghilterra con un fardello di silenzi accumulati nel tempo. Il viaggio si rivelerà sia una dura prova emotiva per entrambi ma anche un’occasione per rimettersi in partita con la vita…
Un film dolente, “Cottontail”, ma irrorato di diffusa poesia. Al suo esordio alla regia Patrick Dickinson dimostra di avere una chiara idea di cinema, una puntuale traiettoria stilistica. Il tema non è di certo nuovo, anzi ampiamente esplorato tra cinema e serie Tv, ma a fare la differenza sono lo stile di racconto, le performance degli interpreti, in primis Lily Franky, come pure una scrittura capace di valorizzare le differenze tanto emotive quanto culturali tra i personaggi. Lungo il viaggio di Kenzaburo e di suo figlio, che occupano inizialmente una posizione distante, divergente, rispetto al dolore, il regista Dickinson è bravo nel costruire un parallelismo con una coppia di inglesi, un padre vedovo (il sempre bravo Ciarán Hinds) e sua figlia (Aoife Hinds), che si trovano a fronteggiare il medesimo dolore, un lutto bruciante in famiglia, mettendo però in campo complicità e dialogo. Ancora, in maniera efficace Dickinson si serve di ricorrenti flashback per ritessere la storia d’amore tra Kenzaburo e sua moglie Akiko, dal primo incontro alle fasi più drammatiche della malattia.
“Cottontail” risulta un’opera minuta, circoscritta, che acquista però densità e fascino grazie al suo svolgimento, alle suggestioni messe in campo dall’autore, in primis l’abile alternanza tra viaggio fisico e interiore dei protagonisti, un cammino di liberazione dalla sofferenza e riconnessione con la vita. Un racconto dolente e raffinato. “Cottontail” consigliabile, problematico, per dibattiti.

La preghiera dei Papi per la pace: dalle Torri Gemelle al conflitto ucraino al Medio Oriente

Ven, 27/10/2023 - 10:10

Venerdì 27 ottobre Papa Francesco ha indetto una giornata di digiuno, penitenza e preghiera per la pace nel mondo. Una data per nulla casuale. Il 27 ottobre del 1986, 37 anni fa, papa Giovanni Paolo II si ritrovava ad Assisi con i leader delle grandi religioni mondiali per dialogare e pregare per la pace. La prima giornata per la Preghiera per la Pace per un mondo a quel tempo schierato su due fronti contrapposti a causa di una pericolosa e terribile “guerra fredda”. C’era bisogno, allora come oggi, di una chiamata all’unità, a riunirsi, nonostante le differenze, per un fine comune. Non c’era mai stato, fino ad allora, un incontro interreligioso di questa portata, per invocare, insieme, la Pace. Un’iniziativa che Papa Giovanni Paolo II volle ripetere nel gennaio del 2002, in risposta agli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. “Nei momenti di più intensa apprensione per le sorti del mondo – diceva il Papa – si avverte con maggiore vivezza il dovere di impegnarsi personalmente nella difesa e nella promozione del fondamentale bene della pace”.

(foto siciliani-gennari/sir)

Ma il papa polacco non è stato l’unico Pontefice a promuovere, nella Chiesa, giornate di preghiera e digiuno. Benedetto XVI, a 25 anni dallo storico incontro di Assisi, con i leader di diverse confessioni cristiane e i fedeli di diverse religioni, si fece con loro pellegrino nella terra del santo assisiate per “rinnovare solennemente l’impegno dei credenti di ogni religione a vivere la propria fede religiosa come servizio alla causa della pace”. Quel 27 ottobre del 2011 erano presenti ad Assisi il patriarca ecumenico ortodosso Bartolomeo I, il primate anglicano Rowan Williams, il rabbino David Rosen.

Fin dall’inizio del suo Pontificato, Papa Francesco ha sempre avuto un’attenzione particolare per le difficoltà e i problemi vissuti dal popolo in alcune parti del mondo. Più volte ha utilizzato Giornata della Preghiera per la Pace come momento di richiamo. Il 7 settembre del 2013 (era papa da neanche sei mesi) convoca in San Pietro i fedeli ad una veglia di preghiera per “invocare da Dio il grande dono della pace per l’amata Nazione siriana e per tutte le situazioni di conflitto e di violenza nel mondo”. “L’umanità ha bisogno di vedere gesti di pace e di sentire parole di speranza e di pace! Chiedo a tutte le Chiese particolari che, oltre a vivere questo giorno di digiuno, organizzino qualche atto liturgico secondo questa intenzione”.

Per celebrare poi il trentesimo anniversario della prima Giornata per la Preghiera per la Pace di Assisi, Francesco ritorna nella piccola cittadina umbra per invocare ancora una volta “PACE” per il mondo. Con lui in piazza pregano Bartolomeo I, patriarca ecumenico di Costantinopoli; Ignatius Aphrem II, patriarca siro-ortodosso di Antiochia; Justin Welby, arcivescovo di Canterbury e Primate della Chiesa di Inghilterra; Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma; Abbas Shuman, vice presidente dell’Università Al-Azhar. Era il 27 ottobre del 2016.

Per Papa Francesco, l’invocazione della pace passa anche attraverso gesti unici e impensabili. Come quello che compie a casa Santa Marta l’11 aprile del 2019, a conclusione di un ritiro spirituale di due giorni per la pace in Sud Sudan. Dopo aver chiesto “come fratello” ai leader del Sud Sudan di “rimanere nella pace”, Francesco con visibile sofferenza si inchina e bacia i piedi del presidente della Repubblica del Sud Sudan, Salva Kiir Mayardit, e dei suoi due vice presidenti designati presenti, tra cui Riek Machar e Rebecca Nyandeng De Mabio.

“Andate avanti – dice poi con voce affaticata ma ferma –, ci saranno problemi, ma occorre andare avanti. Voi avete avviato un processo: che finisca bene. Ci saranno lotte fra voi, ma anche queste siano dentro l’ufficio: davanti al popolo le mani unite”.

foto SIR/Marco Calvarese

Infine, forse il gesto più significativo ed eloquente. Siamo nel 2020. Il mondo è in ginocchio a causa della pandemia causata dal virus Covid-19. I numeri dei morti aumenta ogni giorno, e la curva dei contagi continua a salire. È il 27 marzo. In una piazza San Pietro spettrale, solo, papa Francesco accompagnato soltanto dal rumore della pioggia, davanti a un antico crocifisso miracoloso – quello che fece fermare la pestilenza a Roma nel XVI secolo – invoca da Dio la fine del nuovo flagello. Nel suo discorso, citando il Vangelo di Marco ricorda al mondo che “come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa.

Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti.”

(Foto Vatican Media/SIR)

Il resto è roba dei nostri giorni. Un nuovo conflitto nasce in Europa: la Russia attacca l’Ucraina il 14 Febbraio del 2022. La tensione sale e per rispondere all’ondata di paura e sconcerto che attanaglia il mondo, il 25 marzo dello stesso anno, papa Francesco convoca di nuovo la chiesa in Piazza San Pietro per consacrare la Russia e l’Ucraina al cuore immacolato di Maria. La stessa cerimonia si celebra contemporaneamente a Fatima dal Cardinale Konrad Krajewski. Nelle sue parole un monito da non dimenticare. “Abbiamo dimenticato – dice sofferente – la lezione delle tragedie del secolo scorso, il sacrificio di milioni di morti nelle guerre mondiali”.

Ed eccoci ad oggi: 27 Ottobre 2023. Malgrado la guerra in Ucraina non sia finita e un accordo di pace sembra sempre più lontano, il mondo deve fare i conti con un nuovo conflitto, quello in Medio Oriente, tanto cruento quanto sanguinoso. Ancora una volta c’è bisogno di rispondere presente ad una nuova richiesta di pace, di ascolto, di preghiera. Papa Francesco torna al significato originale della Giornata della Preghiera per la Pace: ricordare agli uomini che nonostante le differenze culturali, ideologiche dobbiamo sempre tendere alla Pace e alla risoluzione del conflitto: “Esorto i credenti a prendere in questo conflitto una sola parte: quella della pace”.

(*) in collaborazione con Martina Anile

Giornata di preghiera e digiuno. Don Tonio Dell’Olio (Assisi): “Costruire la pace significa stare sempre dalla parte delle vittime”

Ven, 27/10/2023 - 10:04

 “A dispetto di ogni polarizzazione che purtroppo i conflitti ci inducono, l’invito del Papa ci aiuta e ci sollecita ad avere un’unica prospettiva: stare sempre e al di là delle appartenenze, dalla parte delle vittime”. A nome del “popolo della pace”, don Tonio Dell’Olio, presidente della commissione “Spirito di Assisi”, presenta la straordinaria iniziativa di una Giornata di preghiera, digiuno e penitenza per la pace promossa da papa Francesco per venerdì 27 ottobre, giorno in cui ricorrono i 37 anni dallo storico incontro interreligioso di preghiera per la pace voluto da San Giovanni Paolo II. “La preghiera e il digiuno sono gli strumenti dei poveri”, osserva Tonio Dell’Olio. “Mi colpisce però il fatto che associazioni e persone, assolutamente laiche, guardano con grande rispetto a questa iniziativa, comprendendola in profondità”. 

(Foto Città Nuova)

Oggi siamo di fronte a una terza guerra mondiale in atto. Dopo la crisi in Ucraina è esplosa in tutta la sua virulenza la guerra in Terra Santa. Significa che lo Spirito di Assisi in questi 37 anni ha soffiato troppo debolmente?
Due considerazioni. La prima è che fino ad oggi siamo riusciti a sottoscrivere delle dichiarazioni, ad aprire degli spazi di dialogo in cui tutti siamo stati pronti ad affermare che non c’è un Dio della guerra e che anche secondo le prospettive delle diverse religioni e fedi, non è possibile trovare una giustificazione alla guerra. Fu detto in maniera chiara e precisa il 27 ottobre del 1986. E’ stato ribadito nelle diverse edizioni promosse dalla Comunità di Sant’Egidio e riaffermato ancora di più ad Abu Dhabi con la Dichiarazione sulla Fratellanza Umana sottoscritta dal Gran Imam al-Tayyeb e da Papa Francesco. Bisogna ammettere però che le dichiarazioni si sono scontrate con i fatti storici concreti, per cui se sugli intenti siamo d’accordo, sui casi specifici tolleriamo il ricorso alle armi e la “guerra giusta”. Credo sia arrivato oggi il tempo di compiere il grande passaggio dalla pace alla non violenza. Passaggio che Papa Francesco ha iniziato in qualche modo ad inaugurare, ma non è ancora portato a compimento.

Da dove cominciare?
E’ la seconda considerazione. Le dichiarazioni sono state fatte tra leader delle diverse fedi ma non sono riuscite a permeare le comunità e diventare strumenti di formazione, di educazione, di pastorale. Noi quindi dovremmo essere capaci di trasformare in itinerari educativi queste dichiarazioni.

Abbiamo assistito, soprattutto con Papa Francesco, anche a dei tentativi di tavoli diplomatici. Penso alla missione del card. Zuppi o alla telefonata del Papa al presidente Biden. Oltre che pregare e digiunare per la pace, cosa possono fare le religioni?
Intanto migliorare le relazioni tra loro e passare dal dialogo all’incontro. Penso, in concreto, quanto potrebbe essere utile e importante avere un luogo in cui le religioni si riconoscono e possono esercitare, in un clima di fiducia reciproca e di cooperazione, la solidarietà in maniera congiunta. Penso anche ad un ambito più diplomatico, di impegno interreligioso che lavori all’interno delle Nazioni Unite e possa servire come spazio comune per lavorare per la pace. 

 Sta pensando ad un’istituzione o a un tavolo o a un forum delle religioni per la pace?
Sì, una realtà però che non sia soltanto frutto della spontaneità o dell’iniziativa delle religioni, ma un tavolo che venga legittimato e riconosciuto dalle Nazioni Unite.

Come si costruisce la pace di fronte all’impasse dell’odio e all’impasse della rincorsa delle armi?
L’unica volta in cui mi è stato concesso di entrare a Gaza, tra gli incontri più interessanti e profondi che ho fatto, c’è stato quello con uno psichiatra che cura i traumi di guerra. Lui mi diceva che per laurearsi in medicina e poi specializzarsi ha frequentato un’università israeliana dove ha incontrato ed è tuttora amico di tanti coetanei e colleghi israeliani. Il nodo sta qui. Le nuove generazioni di Gaza, purtroppo chiusi dalla nascita dentro la Striscia, non hanno mai incontrato un israeliano se non quelli in divisa o quelli che pilotano gli aerei che bombardano e distruggono la vita ordinaria di Gaza. Per loro, gli israeliani sono tutti nemici. E viceversa.

Questa è la mostruosità della guerra.

Questo vale anche per gli ucraini e i russi?
Si e aggiungerei tra due popolazioni che erano parte addirittura di un’unica Federazione. 

Cosa vuole dire?
Che le guerre vengono sicuramente permesse dalla produzione e dalla circolazione delle armi ma vengono alimentate dal sentimento dell’odio che va crescendo. Allora noi dovremmo essere in grado – e questo è un compito non solo delle religioni, ma anche della società civile, dei movimenti per la pace – di sentire ‘l’odore di bruciato’ come diceva Dossetti, e laddove l’inimicizia cresce, riannodare segni di pace e costruire ponti laddove altri costruiscono i muri.

 

Day of fasting and prayer. Father Tonio Dell’Olio (Assisi): “Peace building implies always standing in solidarity with the victims”

Ven, 27/10/2023 - 10:04

“Despite the polarisation that conflicts unfortunately produce in us, the Pope’s appeal for the Day offers us guidance and urges us to have only one vision: to always be on the side of the victims, whatever our allegiances.” Father Tonio Dell’Olio, President of the “Spirit of Assisi” Commission, presented the extraordinary event of the Day of Prayer, Fasting and Penance for Peace called by Pope Francis for Friday 27 October, which marks the 37th anniversary of the historic interreligious prayer meeting for peace convened by John Paul II. “Prayer and fasting are the tools of the poor,” said Tonio Dell’Olio. “However, I am impressed by the great respect and deep understanding that lay associations and individuals have for this initiative.”

Today we are facing a third world war fought piecemeal. After the crisis in Ukraine, the war in the Holy Land has broken out with full force. Is this a sign that the spirit of Assisi has been blowing too weakly for the past 37 years?

I have two observations. The first is that so far we have been able to sign declarations, to open spaces for dialogue, in which we have all been eager to proclaim that there is no God of war and that there is no justification for war, even from the point of view of the various religious traditions and beliefs. This was said clearly and emphatically on October 27, 1986. It was reiterated in the various meetings promoted by the Community of Sant’Egidio and it was reaffirmed with greater emphasis in Abu Dhabi with the Declaration on Human Fraternity signed by Grand Imam al-Tayyeb and Pope Francis. However, it must be recognised that these declarations have collided with the realities on the ground, so that while we agree on intentions, in specific cases we tolerate the use of weapons and recourse to a ‘just war’.

I believe that the time has come to complete the great transition from peace to non-violence. A transition that Pope Francis has begun, to a certain extent, but which has not yet been completed.

Where do we start?

This is the second consideration. The Declarations have been issued by religious leaders of different faiths, but they have not been able to penetrate the communities and become instruments of formation, education and pastoral care. We should therefore be able to transform these declarations into educational itineraries.

We have also witnessed, especially with Pope Francis, attempts to create diplomatic forums. This is the case of Cardinal Zuppi’s mission and the Pope’s telephone call to President Biden. Besides praying and fasting for peace, what can religions do?

First of all, they can improve their mutual relations and move from dialogue to encounter. Specifically, I am thinking of how useful and important it could be to have a place where religions can recognise each other and exercise solidarity together in an atmosphere of mutual trust and cooperation.

I am also thinking of a more diplomatic environment, of an inter-religious engagement that could operate within the United Nations and serve as a common space for peacebuilding efforts.

Are you thinking of an institution or forum of religions for peace?

I am, but it should not just be a spontaneous initiative of the religions, but a body recognised and legitimised by the United Nations.

Given the stalemate of hatred and the arms race, how can peace be built?

The only time I was allowed into Gaza, one of the most interesting and revealing meetings I had was with a psychiatrist who treats war trauma. He told me that in order to complete his medical degree and then his postgraduate studies, he had studied at an Israeli university, where he met, and is still friends with, many Israeli colleagues and peers. This is the crux of the matter. The younger generation in Gaza, sadly confined to the Strip since birth, has never met an Israeli other than those in uniform or the pilots of the planes that bomb and destroy ordinary life in Gaza. They see all Israelis as the enemy. And vice versa.

That is the monstrosity of war.

Does this also apply to the Ukrainians and the Russians?

Yes, and I would like to add that this applies also to two peoples that once even belonged to the same Federation.

What does this mean?

That wars are made possible by the production and proliferation of weapons. But they are also fuelled by growing feelings of hatred. It is up to us – not only the religions, but also civil society and peace movements – to smell the smoke while it is still possible to extinguish the fire, as the theologian Dossetti once said, to rekindle the signs of peace where there is enmity, to build bridges where others build walls.

Il valore della vita

Ven, 27/10/2023 - 00:55

“La persona non può esimersi dal confronto con il mistero del limite creaturale e della morte”. Ce lo ricordano i vescovi del Nordest nella recente nota “Suicidio assistito o malati assistiti?”, pubblicata integralmente su questo numero de L’Azione. Ci pongono a confronto con il mistero della morte anche i giorni che si stanno avvicinando, la festa di Tutti i Santi e la Commemorazione dei fedeli defunti. Un mistero, quello della morte, illuminato dalla speranza della fede nella resurrezione, che tuttavia ci interpella e ci provoca. E forse anche un po’ ci spaventa.

Non spaventa di meno il timore che l’ultima fase della propria vita possa essere segnata da prolungate sofferenze e da una progressiva compromissione della dignità della persona. Da qui il diffondersi, nella sensibilità di molti, del desiderio di poter decidere quando porre termine alla propria esistenza, tramite un ricorso più semplice e immediato, dal punto di vista giuridico, al “suicidio assistito”. Su questa linea, come segnala la nota dei Vescovi, si stanno muovendo alcune Regioni, intenzionate a rendere maggiormente disponibile questo tipo di strumento a quei cittadini che lo scelgano. “Una scorciatoia” denunciano i Vescovi, che a questa forma di eutanasia contrappongono delle alternative: prima fra tutte, quella dell’assistenza, della cura e della vicinanza al malato, perché – continua la nota – “si può sempre alleviare il dolore e la sofferenza attraverso le cure palliative. Nessuno può essere lasciato morire da solo!”.

Ripensando al recente passato, a questi ultimi tre anni, purtroppo, sappiamo che diverse persone sono morte “da sole”. Non perché il Servizio sanitario, nel limite del possibile, non si sia preso cura di loro, ma perché non è stato possibile la vicinanza dei propri cari nella fase finale della propria esistenza. Questa dolorosa esperienza resterà nella memoria collettiva delle nostre comunità come una ferita: resterà soprattutto nella memoria delle famiglie che l’hanno vissuta e attraversata. Ci vorrà tempo e, per chi ha fede, un profondo affidamento a Dio per poter rimettere insieme i pezzi dolenti di questa storia e trovare la via per una riconciliazione interiore. “Mai più”, verrebbe da dire, pensando al futuro.

Nella nota dei vescovi, inoltre, si richiama l’urgenza di promuovere “una coraggiosa cultura della vita”. Si tratta di un caposaldo della prospettiva credente che vede nella vita un dono di Dio che va – sempre – salvaguardato. Anche in questo caso, però, duole notare che la “cultura della vita” non è semplicemente messa a rischio, ma è anzi sempre più negletta e disprezzata nel sentire comune. Ci si sta abituando, in modo subdolo, al fatto che la vita delle persone conti sempre meno o non conti affatto; ci si sta abituando alle quotidiane notizie di morti nella guerra in Ucraina, tanto che ormai non fanno quasi più scalpore… Abbiamo assistito al massacro degli Israeliani per mano di Hamas ed ora, girando pagina, proviamo giustamente orrore per le vittime innocenti dei Palestinesi, presi in mezzo, senza loro colpa, tra Hamas e l’esercito israeliano. Domani ci sarà qualche altro orrore a farci gridare allo scandalo, ma avremo già dimenticato i morti del giorno prima. (Chi si ricorda più di Cutro o delle migliaia di morti in Turchia e Siria per il terremoto del febbraio scorso?).

Il “mondo”, con le guerre, il terrorismo e una visione materialistica dell’esistenza, vuole convincerci in tutti i modi proprio di questo: che la vita umana non vale niente. Il nostro grande errore, però, sarebbe crederci. Sarebbe un errore tremendo da un punto di vista personale ma anche comunitario e politico.

La nota dei Vescovi si conclude invitandoci a leggere l’esperienza del dolore e della morte “alla luce della fede che ha nel Mistero pasquale – di morte, resurrezione e di vita piena nello Spirito – il suo centro e culmine”. Possano questi giorni, in cui ci recheremo nei cimiteri a rendere omaggio ai nostri cari, essere giorni di riconciliazione interiore e di pacificazione. E, allo stesso tempo, possano essere l’occasione per scegliere di credere che la vita è un dono prezioso, sempre.

 

Rastrelli digitali

Ven, 27/10/2023 - 00:55

Se d’estate l’incubo è quello di dover tagliare il prato, in autunno il tagliaerba cede il posto al rastrello, perché il foliage, tanto romantico e variopinto, alla fine precipita inesorabilmente a terra, ricordandoci la caducità della vita, o almeno l’ermetica poesia di Giuseppe Ungaretti.
Proprio quella del rastrello è la familiare e rassicurante immagine scelta in un recente convegno dal prof. Roberto Battiston, ordinario di fisica sperimentale all’Università di Trento e ottimo divulgatore scientifico, per far comprendere a noi comuni mortali come funzioni l’intelligenza artificiale, tema (che si vorrebbe) di inquietante attualità e a cui, sollecitati dagli amici del Festival Biblico, anche la Voce dedica il focus di questa settimana.
Confesso che sentir paragonare al lavoro di un umile rastrello la capacità di trovare ed elaborare dati di calcolatori elettronici sempre più sofisticati, per quanto tranquillizzante, è risultato quasi deludente. Per noi, figli di una generazione cresciuta sognando e temendo il giorno in cui un robot avrebbe manifestato imprevedibilmente una vita propria sino a violare le tre celebri leggi della robotica (formulate dal padre della fantascienza Isaac Asimov) e rivoltandosi contro l’essere umano, l’idea che una macchina generi testi di senso compiuto (come nel caso della tanto discussa ChatGPT) solo perché le abbiamo insegnato a tenere in mano un rastrello nel vasto prato del web è quasi la caduta di un mito. Perché in fondo è fondamentalmente questo ciò che, almeno ad oggi, l’intelligenza artificiale è in grado di fare: raccogliere e rielaborare dati, secondo protocolli definiti dallo stesso essere umano, generando testi di senso compiuto e in genere dai contenuti corretti ed esaustivi (anche se sempre da verificare), ma totalmente mancanti di quell’originalità, di quel guizzo creativo che resta appannaggio della mente umana e dunque dell’intelligenza naturale.
L’intelligenza artificiale è “compilativa” e per quanto generativa di contenuti, non pare ancora esserlo di idee innovative. La macchina, potremmo dire, guarda al passato, a ciò che già esiste, può ripeterlo e rielaborarlo; l’uomo invece, per sua natura, tende al futuro ed è in grado di avere visioni di realtà totalmente nuove.
Tutto questo non deve condurci a sminuire l’importanza dell’apporto positivo che l’intelligenza artificiale può portare e sta già portando alla nostra vita, come pure a non sottovalutare i rischi che tali nuove tecnologie portano con sé. Certamente l’intelligenza artificiale può sostituirsi all’uomo velocizzando e perfezionando calcoli complessi, ma se utilizzata come scorciatoia comoda alla fatica del pensare con la propria testa, potrebbe costituire una seria minaccia alla capacità di ragionamento, di pensiero critico e dunque alla possibilità stessa del darsi della verità e della tenuta della democrazia. Davanti a tali scenari (in parte già realtà, ad esempio nel generarsi automatico di contenuti politici sempre più polarizzati sui social) la tentazione a volte potrebbe essere quella di sognare un “neo-luddismo digitale”: distruggere le macchine prima che le macchine distruggano la nostra capacità di pensare. Ma se la cosa non funzionò con i telai meccanici della prima rivoluzione industriale, c’è da dubitare che possa essere utile prendere a calci i nostri computer o scagliare contro il muro il nostro smartphone. Forse basterebbe ricordarsi di spegnere a volte questi dispositivi, non correre a interrogare “l’oracolo digitale” al primo dubbio epistemologico o esistenziale e cercare invece risposte dentro di noi. Anche perché se chiedete all’intelligenza artificiale quanti anni ha il nostro vescovo, vi risponderà che Attilio Nostro, vescovo di Tropea, ha 57 anni.

Sinodo. Ruffini: “La relazione di sintesi sarà un documento di 40 pagine per incoraggiare il popolo di Dio”

Gio, 26/10/2023 - 17:00

Questa mattina è stata presentata ai membri del Sinodo la bozza della relazione di sintesi, che concluderà la prima sessione del Sinodo dei vescovi sulla sinodalità. Lo ha riferito ai giornalisti Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede e presidente della Commissione dell’informazione, nel briefing odierno in sala stampa vaticana. I 35 Circoli Minori hanno presentato i “modi” sullo schema della relazione di sintesi, per integrazioni e modifiche del testo, che poi sono stati consegnati alla Segreteria generale. “La Commissione per la relazione del documento di sintesi ha condiviso alcuni criteri di base del documento”, ha riferito Ruffini:

“quello finale sarà sottoposto al Papa nell’ottobre 2024, quello di adesso è invece un documento transitorio, per aiutarci a capire dove siamo, fare memoria di cosa si è detto in queste quattro settimane di discernimento e riavviare un processo circolare che continuerà fino all’anno prossimo”.

La relazione di sintesi che sarà votata sabato pomeriggio “sarà un documento di circa 40 pagine – ha anticipato Ruffini – che certo non potrà contenere ogni dettaglio, ma indicherà i punti dove il discernimento è andato più avanti e quello dove deve andare più in profondità. Il linguaggio sarà discorsivo, per incoraggiare tutto il popolo di Dio, chi è già in cammino e chi vuole intraprendere o continuare questo cammino. Questa esperienza di sinodalità vuole farci comprendere e apprendere come camminare insieme, come cercare soluzioni insieme senza escludere nessuno e senza cedere alla tentazione del clericalismo”. Alla prossima sessione del Sinodo, tra un anno esatto, parteciperanno gli stessi membri.

“La sinodalità ha fatto vedere che esiste un metodo con cui si può progredire non solo nella vita della Chiesa, ma anche sulle questioni delle guerre e dei conflitti mondiali, su tutto quello che umanamente si può evitare in modo pacifico”.

Ne è convinto mons. Stanislaw Gadecki, arcivescovo metropolita di Poznan e presidente della Conferenza episcopale polacca, che si è detto “sorpreso della metodologia adottata, che di fatto ha potuto evitare le discordie”. “Parlando con gli esponenti delle altre denominazioni cristiane e con i non credenti – ha testimoniato – abbiamo capito che si poteva progredire non nel senso dell’aggressione, dell’esposizione dei propri sentimenti, ma su ciò che di buono può scaturire dal processo intrapreso. Anche quando c’erano differenze, i discorsi erano del tutto pacifici: non si cercavano i punti di attacco. Il metodo introdotto durante questo Sinodo ha pacificamente portato qualche esperienza che può essere utile anche per il mondo”. Il processo sinodale, infatti, per Gadecki “è tendenza verso l’unità, rispettando la diversità delle confessioni, degli spiriti, delle culture. Raramente negli incontri umani si evitano discordie tra posizioni differenti, invece ciò che mi ha meravigliato del metodo adoperato è che, non soltanto durante questa assemblea sinodale qui a Roma ma già all’inizio, abbiamo prima potuto esprimere le nostre idee, poi ascoltare le idee degli altri e alla fine, grazie anche ai momenti di preghiera e di silenzio, abbiamo scoperto che esiste un modo di parlare con l’aiuto dello Spirito Santo che può portare discussione pacifiche in questo mondo”.

“Il processo sinodale deve essere ecumenico, e il cammino ecumenico deve essere sinodale”,

ha spiegato il card. Kurt Koch, prefetto del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani: “c’è una reciprocità tra ecumenismo e sinodalità. Tutti i battezzati sono invitati a testimoniare l’amore per la fede cristiana. L’ecumenismo è nato come movimento missionario nel 1910, con la prima assemblea missionaria ad Edimburgo. Ecumenismo e missione vanno insieme”. Concetto, questo, rafforzato anche da Catherine Clifford, docente di teologia alla Saint Paul University di Ottawa e segretaria della Confederazione mondiale delle Chiese metodiste, che ha fatto notare come “tutto il movimento ecumenico è un movimento di riforma della Chiesa”: “Il nostro lavoro è esaminare noi stessi costantemente e capire cosa va rinnovato nella vita della Chiesa. Papa Francesco, nell’Evangelii gaudium, ci ha chiesto una conversione pastorale missionaria per capire cosa rinnovare nella Chiesa e come portare avanti la sua missione in modo più efficace. È questo che stiamo facendo in questo processo sinodale: guardiamo alle strutture e alle pratiche per capire cosa va rinnovato”. “Sono secoli che nella Chiesa ortodossa la sinodalità è un fatto”, ha ricordato Sua Eminenza Iosif, metropolita ortodosso romeno dell’Europa occidentale e meridionale, mettendo in evidenza “la fraternità che da un secolo si sta costruendo tra i cristiani del mondo intero: siamo passati dai rapporti tesi e dalla ricerca delle divisioni alle relazioni fraterne, dove cerchiamo quello che ci unisce. L’essere stati invitati a questo Sinodo è la dimostrazione che cerchiamo tutti insieme quello che ci unisce, ciò che abbiamo in comune”. L’esempio citato è quello dell’Italia, dove la Chiesa cattolica “accoglie molti ortodossi di Romania e presta più di 300 chiese per le parrocchie, con una vera collaborazione su tutti i piani. L’ecumenismo avviene alla base: ci sono molte famiglie miste che si sono formate in Europa e nel mondo dove protestanti, ortodossi e cattolici formano delle famiglie. Ci invitano ad avere maggiore dialogo e ad andare oltre le divisioni, sviluppando un dialogo che deve essere sempre più intenso tra tutti i cristiani”. Opoku Onyinah, già presidente della Chiesa pentecostale del Ghana, ha definito l’invito al Sinodo come “un atto di umiltà del Papa e della Chiesa cattolica. È stato un processo molto trasparente e aperto, che ha garantito pari opportunità di condividere la propria spiritualità e i propri punti di vista”.

Pagine