Sulla via percorsa dai re Magi a Betlemme per visitare Gesù bambino, una casa vuole abbattere i muri della Palestina con la cultura
A pochissima distanza dalla basilica della Natività a Betlemme, proprio sulla strada che percorsero i Re Magi seguendo la stella cometa che li portò fino a Gesù bambino, sorge “Casa Fleifel” (Casa dei Re Magi), una struttura che si sviluppa all’interno di una palazzina acquistata e ristrutturata grazie al contributo di 850mila euro della Cei attraverso i fondi dell’8xmille alla Chiesa cattolica, che vuole essere punto di riferimento culturale, assistenziale e promozione, attraverso il lavoro artigianale. Lo hanno visitato i giornalisti dei settimanali cattolici italiani in Terra Santa, vincitori delle edizioni 2019 e 2020 del concorso giornalistico “Selezione nazionale ‘8xmille senza frontiere’”, organizzato dal Servizio per gli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli della Cei e dalla Fisc-Federazione italiana settimanali cattolici. Come i Re Magi portarono la loro arte come dono più prezioso, così questo spazio è stato ideato in territorio palestinese dalla Custodia di Terra Santa ed ATS pro Terra Sancta, come luogo di aggregazione ed incontro aperto all’intera comunità locale, senza distinzioni di religione, etnia, sesso, età. Un centro di promozione culturale e ricreativo che offre la possibilità di scambio tra le diverse comunità del territorio, in grado di offrire alle donne e ai giovani corsi di formazione artigianale, incontri tematici per la gestione igienico-sanitaria, educativa ed economica della famiglia, attività ricreative, culturali e caritatevoli.
“Siamo specializzati nell’aiutare soprattutto le fasce più vulnerabili. In particolare abbiamo un servizio di assistenza sociale, perchè qui in Palestina non c’è lo stato sociale e quello che c’è è sul lastrico e non funzionante. Soprattutto le persone anziane non hanno i soldi per fare interventi ai denti o agli occhi, ma anche le donne che devono partorire sono costrette a spendere una cifra pari a 2 stipendi e per questo motivo si rivolgono a noi che le sovvenzioniamo”, sono le parole di Tommaso Merlo, coordinatore dell’ATS pro Terra Sancta, presente a Betlemme da circa 17 anni con diversi progetti, tra i quali quello di riabilitazione delle case nel centro storico che mira ad aiutare quasi esclusivamente famiglie cristiane, per cercare di conservare la permanenza della comunità cristiana in forte minoranza.
L’associazione sostiene anche le strutture cristiane che sussistono sul territorio palestinese, come ad esempio quelle gestite dalle suore che assistono i bambini disabili abbandonati, anche se questi non sono di religione cristiana che rappresenta il 2%, “in questo luogo tutti i figli illegittimi vengono abbandonati ed i bambini disabili vengono visti come una vergogna e quindi anche loro abbandonati”.
Tra gli altri l’associazione organizza anche progetti per l’inserimento delle donne nel mondo del lavoro, ma soprattutto il bazar equo solidale aperto da un anno che fa riferimento ad un network di 30 produttori tra cui cooperative di disabili, tutte aiutate a migliorare i prodotti ed il processo produttivo, per fornire prodotti di qualità. “Diamo dignità a queste persone, non solo un lavoro, cercando di imporci con prezzo giusti”, ha aggiunto Merlo presentando il lavoro di ristrutturazione eseguito sulla palazzina, tutto con manodopera e prodotti palestinesi, facendolo diventare un centro culturale nel quale presentare mostre, concerti ed altre idee provenienti dai giovani.
I giornalisti dei settimanali cattolici pellegrini in Terra Santa tra le pietre vive
Quando si parla di Terra Santa si parla di una terra in cui tutti trovano radici e cittadinanza. Non si parla semplicemente di un territorio compreso tra il mar Mediterraneo ed il fiume Giordano. Si parla della terra promessa da Jahvè al popolo ebraico; si parla del luogo da cui Maometto ascese al cielo per ricevere istruzioni divine da Allah; si parla della terra dove nacque, morì e resuscitò Gesù Cristo, il Dio dei cristiani. Un luogo insomma, dove storia e religioni hanno costruito, distrutto e ricostruito ogni singola pietra di quei luoghi e dove gli uomini che la abitano non sempre sono stati capaci di abitarla con spirito di convivenza e di pace. Camminare per quelle strade, offre la possibilità di riflettere sul passato, sul presente di ognuno, sulla storia e sulla fede che non è un elemento secondario a determinate coordinate. Per rendersene conto basterebbe guardare con quanto trasporto le persone che entrano nel Santo Sepolcro a Gerusalemme, pregano accarezzando la pietra sulla quale è stato deposto il corpo di Gesù morto in croce, ma un esempio di devozione sono certamente anche il Muro Occidentale per gli ebrei e la Cupola della Roccia per i musulmani. La Terra Santa è anche tanto altro, ed una parte l’hanno sperimentata i giornalisti dei settimanali cattolici italiani in viaggio in quei luoghi perché vincitori delle edizioni 2019 e 2020 del concorso giornalistico “Selezione nazionale ‘8xmille senza frontiere’”, organizzato dal Servizio per gli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli della Cei e dalla Fisc-Federazione italiana settimanali cattolici.
“Ognuno ha portato se stesso pellegrino qui in queste terre, in questi luoghi, però portando se stesso ha portato anche le proprie redazioni e le proprie Chiese. Ma è stato un pellegrinaggio sinodale, nel senso che ci siamo messi in ascolto di quello che le Chiese della Terra Santa, hanno da dire. Quindi l’attenzione, col cuore aperto, alle esperienze che vivono nella quotidianità ed a cui noi troppo spesso non diamo abbastanza attenzione”. Queste le parole di Mauro Ungaro, presidente della Fisc, che ha accompagnato i giornalisti in questa esperienza che li ha portati a visitare i progetti sostenuti in Terra Santa con i fondi dell’8xmille alla Chiesa cattolica italiana, oltre che una terra che “ha visto la Parola diventare carne, quella Parola che noi come giornalisti cattolici, siamo tenuti a masticare ogni giorno per non dimenticare che il fine della nostra professione, del nostro impegno, della nostra diaconia informativa è essere prima di tutto testimoni della verità”. Raccontare e riscoprire le storie, in modo tale da ridare ad ogni persona dignità ed un volto con nome e cognome, senza nessuna distinzione, pregiudizio o luogo comune, questo l’invito che Ungaro ripropone ricordando il concetto che Papa Francesco ripete ai giornalisti in ogni messaggio per le comunicazioni sociali. La scuola gestita dalla Figlie di Maria Ausiliatrice a Nazareth, mentre a Betlemme, in Palestina, la scuola Effetà “Paolo VI” per sordi gestita dalle suore Dorotee Figlie dei Sacri Cuori, la scuola College des Fréres ed il circolo culturale Casa dei Magi, questi i progetti visitati nel viaggio.
“Questo viaggio lo riassumo con una parola: prossimità. Credo che i giornalisti si portino a casa la ricchezza di una firma”, le parole di don Enrico Garabuio, Servizio interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli della Cei, che ricorda come nell’assemblea dei vescovi di maggio siano stati stanziati 80 milioni di euro per gli interventi caritativi nei Paesi in via di sviluppo, tra questi proprio Israele e la Palestina, interessati da progetti nel campo educativo e culturale che favoriscono il dialogo interreligioso ed educazione, quindi scuole gestite da missionari religiosi. “La Chiesa italiana non è una Chiesa poco audace ma una Chiesa silenziosa che opera nel silenzio. Quindi anche le nostre opere di carità, talvolta, è un bene non detto, non annunciato”. Aggiunge il sacerdote della Cei, sottolineando l’importanza della testimonianza, di un atto d’amore generoso e gratuito, senza il bisogno di un riconoscimento.
Oltre l’incontro con le pietre vive che animano la Terra Santa attraverso le esperienze viste a Nazareth ed a Betlemme, il viaggio ha permesso di confrontarsi con mons. Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, e padre Francesco Patton, custode di Terra Santa, entrambi riferimento per il mondo cattolico, parte della piccola percentuale del 2% totale che rappresenta i cristiani in quei luoghi.
foto SIR/Marco Calvarese
“La Terra Santa è un territorio dove diverse placche si scontrano, umane, culturali e religiose. Oriente, occidente, cristiani, ebrei, musulmani, culture diverse. Questa è una faglia umana dove queste tensioni molto spesso vengono fuori, ma è anche la ricchezza di queste comunità”.
Le parole di mons. Pizzaballa che descrive una situazione complicata sia politica, tra israeliani e palestinesi, che tra le Chiese cristiane, indebolite nei numeri ma anche nelle relazioni, ma ha bene in mente come vivere da cristiani, seppur in minoranza, in un contesto plurireligioso e pluriculturale. “In questa terra così lacerata e divisa, i cristiani sono gli unici che possono dire una parola chiara sulla relazione tra giustizia, verità e perdono. Ed è un tema molto sentito qui, molto faticoso, molto doloroso, però riguarda la vita di tanti popoli. Sono tante le cose di cui Gerusalemme dovrebbe parlare di più”. Una minoranza evidenziata anche nell’intervento di padre Patton, testimone di un operato a favore della riconciliazione in tutto il Medio Oriente, tra popoli e religioni diverse, attraverso la testimonianza fatta di servizio e prossimità come le opere sostenute.
foto SIR/Marco Calvarese
“Le scuole sono necessarie per coltivare l’identità cristiana, in modo tale che i nostri cristiani riescano a capire che essere cristiani di Terra Santa non è una maledizione, ma è una vocazione”, le parole del Custode di Terra Santa che. Aggiunge, “Purtroppo, per il fatto che si sentono abbandonati dal resto del mondo, molti cristiani di Terra Santa, qui e ancor più quelli che vivono in zone di guerra come Iraq, Siria, Libano, non la sentono come una vocazione, la sentono come una specie di fatto avverso. Però è invece importante aiutarli a capire che è volontà di Dio, sono gli eredi delle prime comunità. È grazie ai loro antenati che anche noi siamo diventati cristiani, ed è grazie anche a loro che noi possiamo anche custodire i luoghi santi”.
Dei luoghi che hanno caratterizzato l’esperienza vissuta dai giornalisti dei settimanali cattolici, pellegrini in una terra che testimonia la loro fede, guidati da mons. Vincenzo Peroni che descrive la dimensione del pellegrinaggio come costitutiva per l’esperienza religiosa, un cammino esteriore che deve educare un cammino interiore. “È sempre un incontro con il Signore, una ricerca della presenza di Dio che viene fatta in alcuni luoghi che sono segnati da esperienze particolari. Un movimento interiore di risposta ad una chiamata che Dio fa attraverso la sua Parola”, dichiara mons. Peroni che vede come doveroso, nei limiti delle possibilità di ognuno, il pellegrinaggio in Terra Santa per un cristiano, “conoscere i luoghi nei quali la storia della salvezza si è compiuta singolarmente, dove è avvenuta l’incarnazione e passione morte del Signore Gesù, consente di comprendere il Vangelo non solo da un punto di vista razionale, ma con tutte le dimensioni della propria persona. È il luogo dove l’evento della nostra fede si è compiuto e dove la nostra fede può trovare nuovamente sostanza”.
Card. Zuppi: “Peace is the key to all problems.” Reforms call for a “constituent spirit”
(from Assisi) “Peace is at the heart of all problems.” The wars that are raging in the world, “with their tragic consequences of death, violence, destruction, barbarity and refugees, make us fear that a third world war fought piecemeal – as Pope Francis has been underlining for so many years – could eventually degenerate into a single war.” Cardinal Matteo Zuppi, Archbishop of Bologna and President of the Italian Bishops’ Conference, opened the Extraordinary General Assembly in Assisi, ongoing until 16 November, with a reflection on the tragic global situation. “It’s not a question of being pessimistic, it’s a question of being realistic and responsible, which leads us to ask the world to stop going down the path of war,” the Cardinal appealed:
“May the world reject the idea that the only solution to conflicts is the use of weapons!
May political leaders reflect on the costs of so many conflicts, the poisoned legacy they are leaving to future generations, and opt for common and supranational instruments of conflict resolution instead.” “There is no peace without security, and security cannot be guaranteed by weapons alone,” Zuppi declared. He argued that
“Peace is the remedy to all problems, because war is the source of all evil, spreading its poison of hatred and violence everywhere and reaching everyone, a pandemic of death that threatens the world.”
“The alternative to war is the recovery of good will and respect for the rights of others,” the Cardinal said: “We must continue to believe that it is possible to reach an understanding! It is not naivety, it is responsibility”. He then turned to the ongoing conflict between Israel and Hamas: “All tears are equal. When a person is killed the whole world loses”.
“Hatred can never be a justification for violence against the innocent ones”,
the appeal of the Cardinal, who echoed the words of Pope Francis on Gaza: “May the hostages be released immediately and may humanitarian aid be guaranteed. Let no one give up the possibility of laying down their arms. Cease fire!”
“We cannot allow the culture of war, that of hatred, ignorance, prejudice, to spread, fostered by the vacuum of thoughts, ideas, culture,” is the exhortation that accompanies the Italian Church’s concern about “the resurgence of anti-Semitism”:
“I want our Italian Jewish brothers and sisters to know that the Church is not only close to them, but that it considers any attack against them, including verbal attacks, as an attack against itself and as a blasphemous expression of hatred. We will not remain indifferent! The end of anti-Semitism is an educational, religious and civil duty of the Italian Church. The Italian Church does not underestimate the resurgence of hatred and racism, no matter by whom.”
The themes of the Assembly. “The protection of minors remains one of our main concerns”, he assured, referring to one of the main themes of the Bishops’ Assembly in Umbria: “The second report on the activities for the protection of children of vulnerable adults in the Italian dioceses, which will be published in the next few days, confirms the ongoing commitment of our Churches to consolidate a safer environment for minors through the formation of pastoral workers.” The first national meeting of local coordinators of these services will take place in Rome in the coming days, Zuppi announced. The meeting will end on Saturday 18 November with Holy Mass and prayer in St Peter’s Basilica and with an audience with the Pope on the occasion of the Third National Day of Prayer for Victims and Survivors of Abuse. Regarding the rationale for seminaries, the other central theme of the bishops’ meeting, the Cardinal challenged the idea of the priest as a “figure of the pas”: on the contrary, he said, “the figure and ministry of the priest are decisive in the Church today and in the Church of the future. The Christian community knows this and values its priests.”
Reforms and the country’s priorities. In his introductory remarks, the President of the Italian Episcopal Conference said that “in order to effectively carry out reforms that affect the delicate mechanisms of the democratic system”, it is necessary
create a “constituent” environment
that can fully involve the various actors, not only political ones, as is natural and as was the case at the beginning of the Constitution, but also cultural and social ones. “We are still far from achieving this, and I cannot but repeat the appeal that the Constitution should belong to everyone and be shared by everyone,” Zuppi recalled: “The Constitution also means legislating together. Italians must recover their attachment to the Republic, to the common home. If social bonds are weakening, they need to be strengthened, in order to regain a sense of belonging to a common destiny.” “The Church in Italy is at the service of the people,” said Zuppi, referring to the preparations for the upcoming 50th Social Week of Catholics in Italy, to be held in Trieste from 3 to 7 July 2024, with the theme: “At the heart of democracy.” The housing problem is one of the most pressing issues brought to the attention of politicians:
“In tourist cities, people prefer to make money by turning apartments into B&Bs rather than renting them at affordable prices to families or non-resident students”,
who are struggling with high mortgages and rents. On the issue of immigration, the Cardinal said that “what is needed is a conscious, responsible and truly united Europe that does not leave Italy alone to deal with this problem.”
“No government has ever seriously considered granting citizenship to people who grew up in Italy,”
he argued. The Cardinal made extensive reference to the issue of environmental protection, with COP28 on the horizon, which “could bring about a fundamental breakthrough”, also for Italy, with “environmental problems that pose a serious threat to several areas of our country.” He commented on another controversial issue, that is, “the crucial role of the Mediterranean, which has always been the cradle of civilisation, but today it risks becoming a crossroads of geopolitical interests and tensions.”
Card. Zuppi: “La pace è il problema dei problemi”. Per riforme serve “clima costituente”
(da Assisi) “La pace è il problema dei problemi”. Le guerre che dominano gli scenari del mondo, “con il loro tragico seguito di morti, violenze, distruzioni, barbarie e profughi, fanno temere che la terza guerra mondiale a pezzi – come ripete da tanti anni Papa Francesco – possa diventare un’unica guerra”. Il card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, ha aperto l’Assemblea generale straordinaria, in corso ad Assisi fino al 16 novembre, con un pensiero rivolto al tragico contesto internazionale. “Non è pessimismo, ma realismo e responsabilità, che portano a chiedere che il mondo si fermi sulla via della guerra!”, l’appello del cardinale:
“Che il mondo non accetti che sia solo l’uso delle armi a regolare i conflitti!
Che i responsabili politici considerino qual è il prezzo di tanti conflitti, l’eredità avvelenata alle generazioni future e scelgano strumenti condivisi e sovranazionali di composizione di conflitti”. “Non c’è pace senza sicurezza e questa non può essere garantita solo dalle armi!”, il monito di Zuppi, secondo il quale
“la pace è il problema dei problemi, perché la guerra genera ogni male e versa ovunque i suoi veleni di odio e violenza, che raggiungono tutti, pandemia di morte che minaccia il mondo”.
“L’alternativa alla guerra è riprendere a trattare con buona volontà e rispetto dei vicendevoli diritti”, la tesi del cardinale: “Non bisogna smettere di credere che si può arrivare a comprendersi! Non è ingenuità, ma responsabilità!”. Poi lo sguardo si è focalizzato sul conflitto in atto tra Israele e Hamas: “Le lacrime sono tutte uguali. Ogni uomo ucciso significa perdere il mondo intero”.
“L’odio non deve mai giustificare la violenza contro gli innocenti”,
l’appello del porporato, che su Gaza ha fatto sue le parole di Papa Francesco: “Si lascino spazi per garantire gli aiuti umanitari e siano liberati subito gli ostaggi. Che nessuno abbandoni la possibilità di fermare le armi. Cessi il fuoco!”.
“Non possiamo lasciare che la cultura della guerra, quella dell’odio, dell’ignoranza, del pregiudizio, si diffonda, favorita dal vuoto di pensieri, idee, cultura”, il monito che accompagna la preoccupazione della Chiesa italiana per “il risorgere dell’antisemitismo”:
“Sappiano i nostri fratelli ebrei italiani che la Chiesa non solo è loro vicina, ma che considera ogni attacco a loro, anche verbale, come un colpo a sé stessa e un’espressione blasfema di odio. Non resteremo indifferenti! La fine dell’antisemitismo è un impegno educativo, religioso e civile della Chiesa italiana, che non sottovaluta i rigurgiti di odio e razzismo, per chiunque”.
I temi dell’Assemblea. “La tutela dei minori resta una delle nostre preoccupazioni principali”, la rassicurazione riguardo ad uno temi principali dell’assise umbra: “La seconda Rilevazione sulle attività di tutela dei minori degli adulti vulnerabili nelle diocesi italiane, che verrà consegnata in questi giorni, conferma l’impegno continuo delle nostre Chiese nel consolidare ambienti più sicuri per i minori attraverso la formazione degli operatori pastorali”. Nei prossimi giorni – ha annunciato Zuppi – si terrà a Roma il Primo Incontro nazionale dei referenti territoriali dei Servizi, che si concluderà sabato 18 novembre con la Messa e la preghiera a San Pietro e l’udienza con il Papa in occasione della III Giornata nazionale di preghiera per le vittime e i sopravvissuti agli abusi. Quanto alla “Ratio” dei Seminari, altro tema portante del confronto episcopale, il cardinale ha contestato l’idea del prete come “figura del passato”: al contrario, “la figura e il ministero del prete sono decisivi nella Chiesa di oggi e nella Chiesa del futuro. Il popolo cristiano lo sa e ci tiene ai suoi preti”.
Le riforme e le priorità del Paese. “Per un’efficace riforma, che tocca meccanismi delicati del funzionamento della democrazia, è indispensabile
creare un clima costituente,
capace di coinvolgere quanto più possibile le varie componenti non solo politiche, com’è ovvio e come fu all’origine della Costituzione, ma anche culturali e sociali”. Nella parte dell’introduzione dedicata alla politica, il presidente della Cei si è soffermato sul tema della riforma costituzionale. “Siamo ancora lontani da questo e non posso che ripetere l’invito, perché la Costituzione sia di tutti e sia sentita da tutti”, il monito di Zuppi: “Costituzione significa anche questo: statuire insieme. Bisogna riaffezionare gli italiani alla Repubblica, alla casa comune. Se i legami sociali si allentano, è invece necessario rafforzarli, sentendosi parte di un destino comune”. “La Chiesa in Italia è al servizio della gente”, ha sottolineato Zuppi, citando la preparazione della 50ª Settimana sociale dei cattolici in Italia di Trieste, che si terrà dal 3 al 7 luglio 2024, sul tema: “Al cuore della Democrazia”. Tra le altre urgenze segnalate alla politica, la questione casa:
“Nelle città turistiche si preferisce guadagnare trasformando gli appartamenti in B &B piuttosto che affittare a prezzi calmierati alle famiglie o a studenti fuori sede”,
alle prese con il caro mutui e il caro affitti. Sul versante immigrazione, per il cardinale “è necessaria un’Europa consapevole, responsabile e davvero unita e solidale, che non lasci l’Italia da sola”.
“Nessun governo finora ha posto mano seriamente a dare la cittadinanza a chi cresce in Italia”,
l’appello. Non è mancato un riferimento al tema ambientale, con la Cop28 ormai alle porte e che “può rappresentare un punto di svolta fondamentale”. Anche per l’Italia, dove “le questioni ambientali stanno mettendo in difficoltà diversi territori nel nostro Paese. Altro tema caldo “il ruolo cruciale del Mediterraneo, che è sempre stato culla di civiltà e oggi rischia di diventare un crocevia di interessi e di tensioni geopolitiche”.
La voce delle donne afghane in un documentario di Avvenire
“La vita è sempre più forte” dice Alessandro Galassi, regista del docufilm prodotto da Avvenire dal titolo “The Dreamers – Afghan women’s resistance”, davanti alla platea romana che ieri ha potuto vedere in anteprima assoluta il frutto dell’attenzione del quotidiano dei vescovi nei confronti della sorte delle donne afghane che dopo il ritorno del regime talebano nell’agosto del 2021 hanno subito una regressione completa dei loro diritti, ma non si sono arrese. Il titolo del documentario è “The Dreamers” è un omaggio ad una canzone dei “BTS”, la più famosa band di K-Pop (pop coreano, ndr) al mondo, idoli di qualsiasi teenager nel mondo, anche in Afghanistan. Le ragazze che hanno aperto il loro cuore all’inviata di Avvenire Lucia Capuzzi e al regista Galassi, hanno raccontato il loro desiderio di continuare a studiare e grazie al lavoro instancabile e al coraggio di un’associazione, continuano ad apprendere e a insegnare in 25 scuole “segrete” sparse nel paese. Oltre 2000 studentesse, grazie agli sforzi internazionali e alla rete di donne e uomini che non si sono piegati al diktat del regime, in quattro provincie dove il controllo è leggermente meno opprimente, in segreto continuano il percorso di studi che altrimenti sarebbe proibito. Come dice una delle insegnanti (la cui identità è ovviamente segreta) esse sono disposte a “accettare il rischio perché non vogliamo lasciare le nostre ragazze analfabete”.
Questo film ha anche una sorta di “gemello” cartaceo, un volume edito da Vita e Pensiero, dal titolo “Noi, afghane. Voci di donne che resistono ai talebani” curato dalle giornaliste di Avvenire, Lucia Capuzzi, Viviana Daloisio e Antonella Mariani, che ha illustrato le linee e le finalità del progetto #avvenireperdonneafghane che ha mobilitato il giornale in un racconto non episodico della vita delle donne in Afghanistan. “Non si può dimenticare crescendo di divieti per le donne che è iniziato nel 2021 – ha detto la Mariani –, il più odioso dei quali resta è sicuramente il divieto di andare a scuola”. Il documentario è parte di questo progetto, un unicum nel panorama informativo italiano, ed è stato inserito all’interno della 29esima edizione del “Med Film Festival” ideato da Gisella Vocca che ha dato il senso di questa kermesse e di questo stesso film: “Incontrare e specchiarsi nelle vite degli altri è sempre una occasione per capire il presente”.
Effettivamente vedere questo documentario è stata una occasione per uscire da una narrazione manichea dell’Afghanistan che lascia immaginare un paese in cui metà della popolazione è sotto il burka: l’oppressione è presente ma non è tutta uguale, esistono sacche di relativa libertà e soprattutto c’è un mondo silenzioso ma operoso che prova a cambiare le cose, a resistere, a costruire le condizioni perché un domani le cose possano cambiare, innanzitutto permettendo alle donne di istruirsi, ma anche – grazie alle ong che lavorano nel paese – a immaginare percorsi di autoaiuto e di parziale emancipazione. In una società in cui una donna non può fare nulla senza un uomo, le donne vedove sono destinate alla fame, letteralmente. Il film mostra la relativa libertà della provincia di Baiymian dove studiano quasi la metà di tutte le ragazze coinvolte nel progetto.
Esistono spazi in cui incuneare una azione, anche internazionale? Ne è convinta l’inviata Lucia Capuzzi secondo cui “all’interno dei talebani ci sono due anime, una pragmatica e una radicale. Al momento sono i secondi a detenere il potere, con una idea di totale separazione della società, ma ci sono zone grigie dove i docenti vengono in qualche modo protetti dalle autorità locali. Non bisogna immaginare un Afghanistan monolitico, ci sono situazioni in cui le forze locali sono in grado di fare resistenza nei confronti del regime”. Presente anche la Caritas Italiana in questo sforzo come ha ricordato il direttore nazionale, don Marco Pagniello. “Siamo vicini a questa rete informale per aiutare le donne a poter realizzare la propria vita studiando – ha sottolineato don Pagniello – e cerchiamo di portare in Italia i casi più fragili di donne, bambini ma anche uomini che sono riusciti a scappare”. Come ad esempio Madina Hassani, oggi mediatrice culturale con Nove Caring Humans, che era presente in sala e ha dimostrato tutta la determinazione delle afghane in esilio (e in patria) “Noi siamo la generazione che ha combattuto per la libertà, spero che la prossima sia quella che potrà goderne” e ancora “ci sono milioni di persone e di talenti inespressi che attendono una occasione”.Khaled Ahmad Zekriya, ambasciatore afghano in Italia, è intervenuto con un saluto ma soprattutto con una idea precisa: preparare la classe dirigente che domani dovrà prendere le redini di un Afghanistan libero e creare le condizioni perché si possa creare una Conferenza internazionale che rimetta al centro del dibattito la questione afghana.
Hamas and Israel: the peace diplomacy of the children of Jerusalem and Bethlehem
“Victims of a war they do not want and of which they are not the cause, the children of the Holy Land demand peace”,
Fr. Ibrahim Faltas, Vicar of the Custody of the Holy Land, told SIR after children from Holy Land schools in Jerusalem and Bethlehem gathered in a demonstration for peace on three separate occasions last week.
The first initiative took place on 4 November in the courtyard of the Terra Sancta school in Jerusalem, where 400 children gathered around a painting depicting Jesus’ invitation “Let the little children come to me”; the second was on 9 November, just before sunset, also in Jerusalem, called by the Arab Catholic Scout Associations; and the third in Bethlehem on 11 November, this time in the Manger Square, in front of the Nativity scene. The three events were linked by a painting that Father Faltas himself commissioned from a Palestinian artist, depicting “a sad child: I am deeply aware of the suffering of the children of the Holy Land, which I believe is the suffering of all children involved in wars throughout the world.”
Fear and hope. The children of Jerusalem expressed their feelings in a touching presentation of “fear and hope.” “They put into writing their thoughts which should prompt reflection among adults, especially among those who could put an end to the atrocities of the ongoing war”, Father Faltas told SIR. “The Custos, Father Francesco Patton, who attended the meeting, was touched and moved by the children’s words and stressed the educational value of our schools and the need for continuous formation in the culture of peace. The children and young students asked for the gift of peace from God, but also from their respective leaders. Peace for their country, for their peers under the bombs, and for all those who have the right to hope for the future.”
“One day – said the Custos of the Holy Land – in a complicated society like those in the Middle East, they will become people who choose peace as part of their life.”
“We are not alone.” On Thursday 9 November, once again in the Holy City, a prayer vigil for peace was held in the courtyard of the Terra Sancta school just before sunset, on the initiative of the Arab Catholic Scouts and the associations “Sabeel” and “Serviens in spe”. Father Faltas welcomed the many students and children gathered with a reflection centred on ‘daring to ask for the precious gift of peace’. The Latin Patriarch of Jerusalem, Cardinal Pierbattista Pizzaballa, presided over the prayer. He urged the children in particular not to give up hope for peace: “The fact that we are here is a sign that we have a clear orientation for this time, and that is to live it as a community, as one. There is no room now for our little misunderstandings. As Christians, but especially as believers,” said the Patriarch, “we know that God has something to say in our lives. And our God has the face of Jesus: we have to start with Him. There are many questions we cannot answer, but believing in His presence is a consolation for us: perhaps it is not the consolation we seek, but we are not alone.” The Cardinal went on to pray: “We say: yes, Jesus. Our hearts are heavy. We do not understand. We have expectations, but we entrust ourselves to you: please help us to entrust everything to you.” Closing the Vigil, the Patriarch recalled the small Christian community living in Gaza, which, he said, “is going through a terrible situation. We heard that many of them have lost everything, that every day is a day of suffering. Every day they have to decide whether to leave, but they say: ‘No, we will stay because we believe in God’. Everything ends with “Jesus will help us. Jesus will not abandon us”. The vigil was concluded by the children’s choir and the blessing of the Patriarch, while everyone lit a candle in memory of the many victims of the ongoing war.
An indelible trauma. On Saturday 11 November, at the initiative of the Palestinian Ministry of Education and in the presence of the Mayor and the Governor of Bethlehem, children from the city’s schools gathered in front of the Basilica of the Nativity in Manger Square to commemorate the 19th anniversary of the death of Palestinian President Yasser Arafat and to pray together for peace. The boys and girls of the Terra Sancta school were present. Also in Bethlehem, Father Faltas added, “the children expressed through songs, messages and drawings their desire to live in their own land, in peace and security. They released colourful balloons into the sky symbolizing their hope that their voice will be heard. “
“I send out my appeal and I pray with them,” concluded the vicar of the Custody of the Holy Land. “They are the first victims of this horror: even those who are not physically affected will carry an indelible trauma in their eyes, hearts and souls. God will hear their cries and their prayers.”
https://www.agensir.it/wp-content/uploads/2023/11/VID-20231111-WA0040.mp4Hamas e Israele: la diplomazia di pace dei bambini di Gerusalemme e Betlemme
“I bambini della Terra Santa chiedono la pace perché soffrono il male di una guerra che non vogliono e di cui non sono la causa”:
a ripeterlo al Sir è padre Ibrahim Faltas, vicario della Custodia di Terra Santa, dopo che nell’ultima settimana i bambini delle scuole di Terra Santa di Gerusalemme e di Betlemme si sono ritrovati per ben tre volte in piazza a manifestare per la pace.
(Foto I.Faltas)
La prima volta il 4 novembre nel cortile della Terra Sancta school di Gerusalemme, 400 bambini radunati davanti ad un dipinto che ricorda la richiesta di Gesù “Lasciate che i piccoli vengano a me!”, la seconda volta il 9 novembre poco prima del tramonto ancora a Gerusalemme, convocati dalle associazioni degli Scout arabi cattolici, e la terza, a Betlemme, l’11 novembre, questa volta riempiendo la piazza della Mangiatoia, davanti la Natività. Ad unire i tre appuntamenti un dipinto che lo stesso padre Faltas ha commissionato all’artista palestinese e raffigurante “un bambino triste perché conosco profondamente la sofferenza dei bambini della Terra Santa che penso sia la sofferenza di tutti i bambini coinvolti nelle guerre nel mondo”.
(Foto Cts)
La paura e la speranza. A loro volta i bambini di Gerusalemme hanno espresso i loro sentimenti disegnando, in modo commovente, “la paura e la speranza. Hanno scritto pensieri che dovrebbero far riflettere gli adulti, specialmente coloro che in questo momento potrebbero fermare l’atrocità della guerra – spiega al Sir padre Faltas -. Il Custode, padre Francesco Patton, presente all’incontro, colpito e commosso dalle parole dei bambini ha giustamente sottolineato il valore educativo delle nostre scuole e la necessità di una formazione costante alla cultura della pace. I bambini e i giovani studenti hanno chiesto il dono della pace a Dio, ma anche ai governanti. Pace per la loro terra, per i loro coetanei sotto le bombe, e per tutti coloro che hanno il diritto di sperare nel futuro”.
“Un domani – sono state le parole del Custode di Terra Santa – in una società difficile come quella mediorientale, dovranno essere persone che fanno nella propria vita anche la scelta della pace”.
“Non siamo soli”. Giovedì 9 novembre, sempre nella Città Santa, poco prima del tramonto, su iniziativa degli Scout arabi cattolici e delle associazioni “Sabeel” e “Serviens in spe” si è tenuta una veglia di preghiera per la pace nel cortile della Terra Sancta School. I tanti studenti e bambini sono stati accolti da padre Faltas con una riflessione sul coraggio di chiedere il dono prezioso della pace. Il Patriarca latino di Gerusalemme, card. Pierbattista Pizzaballa, ha guidato la preghiera e ha esortato soprattutto i bambini a non perdere la speranza nella pace: “Se siamo qui significa che abbiamo un orientamento chiaro su come vivere questo tempo: viverlo come comunità, uniti. Non c’è spazio adesso per le nostre piccole incomprensioni. Come cristiani, ma soprattutto come credenti – ha affermato il patriarca – sappiamo che Dio ha qualcosa da dire nella nostra vita. E il nostro Dio ha il volto di Gesù: da Lui dobbiamo ripartire. Sono tante le domande a cui non sappiamo rispondere, ma credere nella Sua presenza è per noi una consolazione: forse non è la consolazione che vorremmo, ma non siamo soli”. Il cardinale ha poi pregato così: “Noi diciamo: sì, Gesù. I nostri cuori sono pesanti. Non capiamo. Abbiamo aspettative ma ci mettiamo nelle tue mani: aiutaci a mettere tutto nelle tue mani”. Chiudendo la veglia il patriarca ha ricordato la piccola comunità cristiana di Gaza che, ha detto, “sta vivendo una situazione terribile. Sappiamo che molti di loro hanno perso tutto, ogni giorno è un giorno pieno di difficoltà. Ogni giorno devono decidere se partire ma dicono: ‘No, restiamo, perché crediamo in Dio’. Tutto termina con ‘Gesù ci aiuterà. Gesù non ci abbandona’”. A chiudere la veglia il coro dei bambini e la benedizione del Patriarca, mentre tutti i presenti accendevano una candela per ricordare le tante vittime della guerra in corso.
Betlemme (Foto Cts)
Trauma indelebile. Sabato 11 novembre a Betlemme, su iniziativa del Ministero dell’Istruzione Palestinese, alla presenza del Sindaco e del Governatore di Betlemme, i bambini delle scuole della città si sono riuniti davanti alla Basilica della Natività, nella Piazza della Mangiatoia per ricordare il 19° anniversario della morte del presidente palestinese Yasser Arafat e per pregare insieme per la pace. Erano presenti i bambini e le bambine della Terra Sancta School. Anche a Betlemme, aggiunge padre Faltas, “i bambini hanno espresso con canti, messaggi e disegni il desiderio di vivere nella propria terra, in pace e in sicurezza. Hanno fatto volare palloncini colorati nella speranza che la loro voce sia ascoltata”.
“Chiedo e prego con loro – conclude il vicario della Custodia di Terra Santa -. Essi sono le prime vittime di questo orrore perché anche chi non sarà colpito fisicamente, porterà negli occhi, nel cuore e nell’anima un trauma indelebile. Sarà Dio ad ascoltare il loro grido e la loro preghiera”.ù
https://www.agensir.it/wp-content/uploads/2023/11/VID-20231111-WA0040.mp4Energie rinnovabili. Milano: “In Italia camminiamo troppo lentamente”. Le buone pratiche delle diocesi di Alba e Bari-Bitonto
Ad ottobre, il 4 per l’esattezza, è stata pubblicata l’esortazione apostolica di Papa Francesco “Laudate Deum” sulla crisi climatica. Cinque giorni dopo, il 9 ottobre, il Consiglio Ue ha adottato la nuova direttiva Red III sulle fonti rinnovabili che ha come obiettivo principale di coprire con fonti rinnovabili, entro sette anni, almeno il 42,5% del consumo energetico totale dell’Ue. Gli Stati membri adesso sono chiamati a integrare la nuova direttiva all’interno delle proprie legislazioni nazionali, con appositi Piani per l’energia e il clima. L’Italia di fronte alle sfide di cui parla il Papa e agli obiettivi che si pone l’Ue a che punto è? Ne parliamo con il segretario generale di Greenaccord, Giuseppe Milano.
(Foto: Redazione)
Il Consiglio Ue ha adottato la nuova direttiva Red III sulle energie rinnovabili. L’Italia a che punto sta?
La nuova misura, parte integrante del pacchetto “Fit for 55”, incrementa gli obiettivi della precedente direttiva Red II sulle rinnovabili e introduce meccanismi di semplificazione normativa, nell’esigenza e nell’urgenza di accelerare le politiche di decarbonizzazione. In concreto, dunque, la nuova direttiva Red III, per raggiungere lo scopo della riduzione di emissioni climalteranti del 55% entro il 2030, impone agli Stati membri di portare la quota vincolante di rinnovabili nel consumo finale di energia dell’Ue al 42,5% (dal 32% precedente). Ulteriori novità sono rappresentate dalla spinta alla cooperazione internazionale da attuare mediante progetti transfrontalieri; dall’introduzione di un target per le tecnologie innovative pari ad almeno il 5% della nuova capacità installata; dall’inserimento, per la prima volta, di una percentuale vincolante per il settore del riscaldamento e del raffrescamento (aumento annuo dello 0,8% della quota verde nei consumi fino al 2026 e di 1,1 punti percentuali dal 2026 al 2030); dalla sburocratizzazione dei processi autorizzativi, con una durata non superiore ai 12 mesi per i nuovi impianti da allocare nelle cosiddette “aree idonee”, ai 24 mesi per le eventuali infrastrutture realizzate al di fuori di questi perimetri, ai 31 giorni per gli impianti con capacità pari o inferiore ai 100 kW prodromici alle esperienze di autoconsumo collettivo e di comunità energetiche. E proprio l’enorme ritardo del decreto ministeriale sulle comunità energetiche fotografa la preoccupante paralisi del nostro Paese: oltre a questo provvedimento, infatti, mancano ancora all’appello il decreto sulle “aree idonee” e il nuovo Piano nazionale per l’energia e il clima, ancora in fase di consultazione. Nonostante i tiepidi progressi dell’ultimo biennio, l’Italia oggi copre i propri fabbisogni con appena il 35% di energia rinnovabile e sono solo 3 i GW di nuova capacità rinnovabile installata nel 2022, con la previsione di non superare i 7 nell’anno corrente, quando l’obiettivo dovrebbe essere di almeno 10-12 GW all’anno fino al 2030. In sintesi: bisognerebbe correre. Noi camminiamo troppo lentamente.
Nella “Laudate Deum” il Papa si rivolge principalmente a Governi e organizzazioni sovranazionali, data l’entità dei problemi, ma ha anche ricordato ai fedeli cattolici le motivazioni di questo impegno a difesa del Creato che scaturiscono dalla loro fede e ha incoraggiato i fratelli e le sorelle di altre religioni a fare lo stesso. Qual è l’impegno delle Chiese in Italia su questo fronte e in particolare rispetto alle comunità energetiche?
Papa Francesco, ancora una volta, ci ha stupito: con questa nuova esortazione apostolica, mediante un linguaggio semplice e accessibile a tutti, ci invita ad essere “sentinelle del Creato” e testimoni del cambiamento.Senza negare la complessità e la fragilità odierna scaturite dai cambiamenti climatici esasperati dai nostri insostenibili stili di vita, che impattano prioritariamente sui meno responsabili del nuovo regime climatico, il nuovo documento papale esorta soprattutto gli amministratori, ma anche ciascuno di noi, ad ascoltare gli appelli degli scienziati climatici e l’urlo delle giovani generazioni che non meritano di vivere sulle macerie provocate dalla nostra avidità e cecità. È un testo più politico ed economico, nel senso più etico dei termini, che squisitamente ecologico, nella strenua consapevolezza che la visione strategica dell’ecologia integrale debba essere la bussola per camminare lungo i sentieri della sostenibilità e andare oltre i combustibili fossili. È giunta l’ora che i cristiani riscoprano la bellezza e l’originalità della propria fede in ragione della quale, nel principio della corresponsabilità, si attivino per il bene comune e si trasformino, nelle loro comunità, in attori protagonisti della necessaria conversione ecologica. Un esempio nitido di questa “rivoluzione di senso”, già accolta dalla Chiesa sin dalla Settimana sociale di Taranto, sarebbe la partecipazione alle comunità energetiche, già individuate dalle norme comunitarie come tassello fondamentale per la decarbonizzazione.
Ci sono buone pratiche di cui possiamo parlare?
Le comunità energetiche sono soggetti giuridici che devono perseguire contemporaneamente obiettivi di sostenibilità sociale, ambientale ed economica, mettendo al centro le persone e non il profitto, per processi democratici inclusivi e generativi che concorrano da un lato ad aumentare la dotazione di energia rinnovabile pro-capite e dall’altro ad elevare la qualità dei servizi per i soci aderenti delle comunità energetiche mediante gli incentivi erogati dal Gestore dei Servizi energetici per l’energia restituita alla rete nazionale e per quella autoprodotta. Di conseguenza, “la democratizzazione dell’energia” è una delle modalità individuate dall’Unione europea per andare oltre l’egemonia dei combustibili fossili e analogamente dalla Cei per ricreare coese comunità di destino incardinate sul paradigma della reciprocità e della sussidiarietà. Le diocesi di Bari-Bitonto e di Alba sono le prime, ma non le uniche in Italia, ad essersi già mosse individuando i territori in cui avviare progetti sperimentali, coinvolgendo non soltanto le parrocchie.
Cosa si sta facendo a Bari?
Oltre all’esperienza avviata dalla parrocchia di San Giuseppe che prevede l’installazione degli impianti sulla copertura del contiguo cinema essendo la chiesa un bene vincolato, a Bari si stanno quantificando le superfici utili che potrebbero essere solarizzate, per fasi incrementali, sulla base di progetti tecnicamente ed economicamente ambiziosi e nell’ambizione di contrastare il fenomeno crescente della povertà energetica. Sono in corso, inoltre, valutazioni sia sulla forma giuridica che i costituendi soggetti dovranno avere, con una preferenza per le Fondazioni di partecipazione, sia sull’eventualità di stringere alleanze con istituti di credito che possano contribuire all’acquisto degli impianti, bypassando almeno parzialmente l’indisponibilità dei meno abbienti.
E in Piemonte?
Nel territorio piemontese, in cui l’esperienza avviata è sostenuta anche dalle Istituzioni locali, è particolarmente apprezzabile, invece, sia la dimensione extra-comunale e territoriale sia la vocazione sociale: a fronte degli impianti da oltre 150 Kw che saranno installati, per una copertura di oltre 180 utenze, con gli incentivi raccolti, secondo le informazioni finora disponibili, si punterà a sostenere le famiglie in condizioni di disagio e i più giovani a rischio di marginalità. In particolare, uno degli obiettivi che i proponenti confidano di poter realizzare, attraverso l’erogazione di borse di studio, è l’avviamento al lavoro, per esempio, dei neet, ossia dei giovani che non studiano e non lavorano, oltre di quelli che un lavoro lo hanno perso, in modo tale che possano continuare ad operare nel territorio natio senza emigrare, sostenendo la diffusione dei green jobs che potrebbero offrire solide prospettive (si pensi alla manutenzione degli stessi impianti). In simili aree montane, la sfida principale è rallentare lo spopolamento in corso, generando possibilità di sviluppo per le più giovani generazioni. Tali esperienze rivelano, dunque, quale debba essere la prima energia rinnovabile che dobbiamo alimentare con il nostro pragmatismo: la fiducia negli altri, per una sinodalità sincera e duratura.
La siccità fa scomparire il lago Tefé. Dom da Silva: “Il grido dell’acqua è la lacrima dei poveri”
“Per quanto si cerchi di negarli, nasconderli, dissimularli o relativizzarli, i segni del cambiamento climatico sono lì, sempre più evidenti”, scrive Papa Francesco nella recentissima esortazione Laudate Deum. Ed eccoli, infatti, questi segni, tangibili e concreti, in una delle zone più fragili del pianeta e decisive per il futuro dell’umanità, la foresta amazzonica.
Siamo a Tefé città che prende il nome dal fiume, e dal relativo lago, poco più vasto del nostro lago di Garda, quasi alla confluenza con il rio delle Amazzoni, circa 700 chilometri a ovest dalla capitale dello Stato brasiliano di Amazonas, Manaus. Luoghi che sono tutt’uno con le loro acque. Solo tre mesi fa, le canoe e le piccole barche solcavano le acque azzurre del lago di Tefé per raggiungere le tribù indigene più isolate, mentre i delfini rosa d’acqua dolce saltavano e il bacino lacustre e fluviale svolgeva la funzione che ha sempre avuto: quella di essere l’unico, o quasi, sostentamento per la popolazione della zona, oltre che degli altri esseri viventi.
Lago quasi prosciugato in pochi mesi. Oggi, il panorama è drasticamente e repentinamente cambiato. La siccità che ha colpito l’intera regione dell’Amazzonia brasiliana ha, di fatto, prosciugato quel lago.Le palafitte che sorgono su quelle che erano le sue rive, sono ora “case con i trampoli”, isolate tra la fanghiglia; dove passavano le canoe, ora corrono le motociclette; le carcasse dei delfini e di altre migliaia di pesci, si decompongono sulle sponde. Migliaia di persone, intere tribù indigene, sono diventate irraggiungibili, dato che i corsi d’acqua rappresentano l’unica via di comunicazione.
“Si dice che il grido della terra è il grido dei poveri, e il grido dell’acqua è la lacrima dei poveri”, ci dice il vescovo della prelatura di Tefé, dom Altevir da Silva, che nei giorni scorsi è sceso fino a Brasilia, nella sede della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile, per lanciare un accorato Sos, alla Chiesa del suo paese ma anche a tutto il mondo: “Nonostante ci troviamo nel cuore della foresta amazzonica, dove tradizionalmente il clima è umido, non piove da tre mesi. La siccità che stiamo vivendo è la peggiore di ogni tempo. La moria di pesci è impressionante, ed essi rappresentano la maggior fonte alimentare e di sostentamento per le popolazioni locali. Non si può consumare acqua per le attività quotidiane”.
Emergenza alimentare e ambientale. Più in dettaglio, dei 62 Comuni che compongono lo stato di Amazonas, i 10 che compongono la Prelatura di Tefé (Itamarati, Carauari, Juruá, Japurá, Maraã, Fonte Boa, Jutaí, Uarini, Alvarães e Tefé), sono tra i più colpiti dalla siccità. Il vescovo, da pastore che ben conosce il suo gregge enumera tribù e comunità colpite, una per una. Per esempio, nel comune di Maraã 42 comunità sono quasi tutte senza acqua potabile; tra queste, solo quattro possono godere di un pozzo artesiano. Solo nel comune di Tefé, sono isolate 152 comunità, per un totale di 3 mila famiglie.
La mancanza di acqua per il consumo e per le attività quotidiane, a causa dei fiumi e laghi in secca e della contaminazione per il gran numero di pesci morti, comporta grandi rischi per la popolazione fluviale, secondo le informazioni della prelatura di Tefé. Alcuni membri della comunità dovrebbero percorrere migliaia di chilometri in cerca di cibo, e di bacini in cui sia possibile pescare. Sono almeno 15 mila le persone, in gran parte di tribù indigene che vivono quasi isolate, a rischio per l’emergenza di carattere alimentare.
Ancora, oltre il 60% di ciò che dovrebbe essere trasportato sul Rio delle Amazzoni non arriva a destinazione a causa della siccità. La situazione rischia di colpire soprattutto i prodotti più pesanti, prodotti come il riso, i surgelati e i fertilizzanti, che si prevede diventeranno più costosi nella regione.
“Quanto sta accadendo – spiega al Sir – conferma ciò che il Papa scrive nell’ultima esortazione Laudate Deum e nei precedenti documenti. Tutto è connesso, il dramma ambientale diventa dramma sociale e umanitario. Occorre intervenire presto, perché ci sono popolazioni che sono rimaste completamente isolate e senza acqua e sostentamento. Tutto ciò accade, in parte, anche per cause umane, e la stessa siccità è solo uno degli attacchi che la nostra Amazzonia sta subendo, tra incendi, progetti economici, la presenza crescente dei garimpeiros, i minatori illegali, che con la loro attività contaminano l’acqua con il mercurio”.
Alla siccità si aggiungono gli incendi e le miniere illegali. Come non bastasse, la puzza degli incendi, che come ogni anno (cambia solo il livello di “attenzione” giornalistica) devastano enormi tratti di foresta, si diffonde nell’aria e si avverte a Tefé, così come in molte altre località, compresa Manaus. “Siamo a un punto di rottura della Casa comune, come scrive il Papa. La Laudate Deum parla a tutta l’umanità, ma qui la sentiamo più che mai vicina e concreta. Siamo vittime di questi fenomeni e di progetti che hanno dalla loro parte soltanto la forza bruta, siamo davvero dentro a un sistema che uccide, che assolutizza il profitto. L’esortazione chiede una risposta rapida e al tempo stesso profonda e complessiva, profetica, culturale e spirituale”.
Da qui, l’appello del vescovo, in seguito all’iniziativa di solidarietà presa dalla prelatura: “I nostri fratelli e sorelle fluviali stanno attraversando grandi difficoltà in questo momento e hanno bisogno del nostro aiuto al più presto. Per questo, attraverso la Caritas della Prelatura di Tefé, stiamo lanciando una campagna d’emergenza per aiutare a portare acqua pulita e cibo alle comunità che sono più isolate in questo momento. Unendo le nostre forze a quelle di altre istituzioni, faremo tutto il possibile per aiutare i nostri fratelli e sorelle che stanno attraversando queste difficoltà a causa della siccità. Che i nostri cuori di solidarietà e fratellanza siano solidali con le sofferenze della nostra gente, condividendo il poco che hanno e aiutando coloro che soffrono”. Un appello che, attraverso il Sir, giunge anche in Europa. “Il mondo ci deve aiutare”, conclude dom Altevir da Silva.
*giornalista de “La vita del popolo”
Lake Tefé disappears due to drought. Dom da Silva: “The cry of the water is the cry of the poor”
“Despite all attempts to deny, conceal, gloss over or relativise the issue, the signs of climate change are here and are becoming increasingly evident,” writes Pope Francis in his recent exhortation Laudate Deum. And sadly so, in one of the planet’s most fragile and vital areas for the future of humanity, the Amazon rainforest, those signs are visible and concrete.
We are in the town of Tefé, which takes its name from the river that, before flowing into the Amazon, forms Lake Tefé, slightly larger than Lake Garda in Italy, located about 700 kilometres west of Manaus, the capital of the Brazilian state of Amazonas. These places are one with their water flows. Just three months ago, canoes and small fishing boats were plying the blue waters of Lake Tefé on their way to isolated indigenous tribes, while the Amazon pink dolphins leapt and swam about, and the lake and river basin continued to fulfil their traditional function as the sole, or almost sole, source of food for the local population and other living creatures.
The lake almost dried up in a few months. The landscape has changed dramatically.
The lake has dried up as a result of the drought that has affected the entire Brazilian Amazon.
The pile dwellings that once stood on its banks are now ‘houses on stilts’, isolated in the mud; the waters where canoes used to sail are now dirt tracks crossed by motorbikes; the carcasses of dolphins and thousands of other fish are rotting on its banks. With the waterways as their only means of communication, thousands of people, entire indigenous tribes, have become completely isolated.
“It is said that the cry of the earth is the cry of the poor, and the cry of the water is the cry of the poor”,
we are told by the Bishop of the Prelature of Tefé, Dom Altevir da Silva, who in recent days travelled all the way to Brasilia, to the offices of the National Episcopal Conference of Brazil, to make a heartfelt appeal to the Church of his country, and indeed to the whole world: “Although we are in the heart of the Amazon rainforest, where the climate is traditionally humid, it has not rained for three months. The drought we are experiencing is the worst ever. The death of fish, the main source of food and livelihood for the local population, is staggering. Water is not available for daily use.”
Food and environmental crises. The 10 municipalities of the Prelature of Tefé (Itamarati, Carauari, Juruá, Japurá, Maraã, Fonte Boa, Jutaí, Uarini, Alvarães and Tefé) are among the most affected by the drought, out of the 62 municipalities of the State of Amazonas. Like a shepherd who knows his flock, the bishop lists the tribes and communities that have been affected, one by one. In the municipality of Maraã, for example, 42 communities are without drinking water. Only four of them have an artesian well. In the municipality of Tefé alone, 152 communities, representing 3,000 families, are completely isolated.
The lack of water for consumption and daily activities, due to the drying up of rivers and lakes and the pollution resulting from the large number of dead fish, is posing a serious risk to the people living on the banks of the rivers,
according to data released by the Prelature of Tefé. Some members of the community will have to travel thousands of kilometres in search of food and reservoirs where fishing is still possible. At least 15,000 people, mostly from indigenous tribes living in near isolation, are at risk as a result of the food emergency.
In addition, more than 60 percent of goods shipped through the Amazon are not reaching their destination because of the drought. The situation is likely to affect heavier products in particular, such as rice, frozen food and fertiliser, which are expected to become more expensive in the region.
“What is happening” – he told SIR – “confirms what the Pope has written in his most recent exhortation, Laudate Deum, and in previous documents.
Everything is connected, the environmental disaster is becoming a social and humanitarian tragedy.
It is necessary to act quickly – populations have been left completely isolated, without water or means of subsistence. Some of this is man-made, and the drought itself is just one of many assaults on our Amazon region, including forest fires, economic development plans and the growing presence of illegal gold miners, known as garimpeiros, whose illegal activities have contaminated rivers with mercury.
Wildfires and illegal mining are compounded by drought. As if that were not enough, the stench of the fires, which every year (only the level of journalistic ‘attention’ changes) devastate huge swathes of forest, permeates the atmosphere and can be smelled as far as Tefé and many other places, including Manaus. “We may be nearing the breaking point of our Common Home, as the Pope writes. Laudate Deum speaks to the whole of humanity, but here we feel its closeness and concreteness more than ever. We are the victims of these phenomena and of plans backed only by the force of violence. We are the victims of a murderous system that absolutizes profit. The exhortation calls for a rapid response that is at once profound and comprehensive, prophetic, cultural and spiritual.”
Hence the appeal of the bishop, in the wake of the initiative of solidarity promoted by the Prelature: “Our riverbank brothers and sisters face serious hardship. They urgently need our help. Hence,
through the Caritas Centre of the Prelature of Tefé, we have promoted a relief campaign to bring fresh water and food to the most isolated communities at this time.
Together with other institutions, we will do all we can to help our brothers and sisters who are suffering these hardships caused by the drought. May our hearts of solidarity and brotherhood be united with the suffering of our people, sharing what little they have and helping those who are affected.” It is a plea that reaches out to Europe through SIR. “The world must help us,” concluded Dom Altevir da Silva.
*journalist at “La vita del popolo”
Eroine (stra)ordinarie tra immaginario e realtà: il kolossal “The Marvels” e il doc “Codice Carla”
Il mondo Marvel si tinge sempre più di rosa. In “The Marvels” diretto da Nia DaCosta, 33° film dell’Universo cinematografico dedicato ai supereroi da fumetto targato Disney, a occupare il centro della scena sono tre magnifiche eroine: Carol Danvers alias Captain Marvel, l’adolescente Kamala Khan e l’astronauta Monica Rambeau. Un racconto avventuroso, brillante e colorato che conquista soprattutto per la caratterizzazione del trio, per l’amalgama che si crea: protagoniste il Premio Oscar Brie Larson, Iman Vellani (“Ms. Marvel”) e Teyonah Parris (“Mad Men”). E inoltre, in sala dal 13 al 15 novembre con Nexo Digital la storia di un’altra eroina, la diva della danza classica Carla Fracci che risplende nel bel documentario “Codice Carla” firmato Daniele Luchetti. Un ritratto non convenzionale che rende onore al genio della Fracci e al contempo tratteggia storie di eccellenze in scena: Alessandra Ferri, Roberto Bolle, Eleonora Abbagnato, Jeremy Irons, Marina Abramovic e Chiara Bersani. Il punto Cnvf-Sir.
“The Marvels” (Cinema, 08.11)
Punto di partenza è il kolossal “Captain Marvel” del 2019, che ha dato risalto al personaggio di Carol Danvers, figura divenuta poi centrale nell’Universo Marvel a cominciare da “Avengers: Endgame” (2019). Dopo le successive incursioni nelle serie “Ms. Marvel” (2022, Disney+) e “WandaVision” (2021, Disney+), ecco finalmente un nuovo sguardo sulla mitica eroina a stelle e strisce. Dall’8 novembre è nei cinema “The Marvels” diretto da Nia DaCosta, prodotto da Kevin Feige, dove troviamo non una bensì tre supereroine. Oltre a Carol Danvers interpretata ancora una volta dalla sempre brava Brie Larson, ci sono la sedicenne statunitense-pakistana Kamala Khan, cui dà il volto frizzante Iman Vellani, e la scienziata Monica Rambeau, l’attrice Teyonah Parris. Tre personaggi caratterialmente diversi, acuti e sorprendenti, chiamati a collaborare insieme per il bene comune, la salvezza della galassia, e al contempo a superare i rispettivi irrisolti personali.
La storia. La guerriera Dar-Benn (Zawe Ashton), di origine Kree, vuole riscattare le sorti del proprio pianeta caduto in disgrazia dopo che Carol Danvers, alias Captain Marvel, ne ha distrutto la Suprema Intelligenza. Dar-Benn inizia ad aggredire altri pianeti e sistemi solari per reperire risorse energetiche. A provare a fermarla oltre alla Danvers saranno – per una strana casualità – la giovane prodigio Kamala Khan e l’astronauta Monica Rambeau, nipote della stessa Danvers e nel team guidato da Nick Fury (Samuel L. Jackson).
“Era molto importante sottolineare la relazione che si sviluppa fra le tre protagoniste. Il film doveva essere divertente e godibile, ma volevo anche comunicare tante emozioni nel rappresentare queste tre eroine che imparano a diventare una famiglia”. Così sottolinea la regista Nia DaCosta, al timone del 33° film Marvel. Con “The Marvels” si fa un ulteriore passo in avanti nell’universo dei supereroi di casa Disney: la scena è interamente al femminile, dalle protagoniste all’opponente – regista inclusa–, gli uomini sono quasi del tutto marginali, delle appendici. L’unico che spicca è Nick Fury, solido e dotato di buonsenso, di leadership.
In particolare, le tre eroine non sono espressione di figure infallibili, senza macchia: sono donne di certo imperfette e fragili, ma accomunate da trascinante coraggio, spirito di sacrificio e slanci solidali. Nello specifico, Carol è inarrestabile in battaglia, ma si sente in colpa per le azioni compiute, che hanno innescato la vendetta dei Kree; Kamala è un’adolescente esuberante e caotica, che spesso snocciola bugie ai familiari per guadagnare libertà e per tenerli all’oscuro da possibili pericoli; Monica ha una mente prodigiosa, ma è incapace di superare i traumi del passato, la perdita della madre e il disappunto verso Carol per averla abbandonata nel momento del bisogno. Insieme, però, imparano a fare squadra, a limare le rispettive imperfezioni e a costruire un’intensa che, oltre a salvare la situazione, regala allo spettatore lampi di divertimento e coinvolgimento.
Nell’insieme “The Marvels” ha un buon andamento narrativo, un uso degli effetti speciali ben calibrato e una durata misurata (105’). E se la linea del racconto può apparire a volte un po’ stiracchiata, a garantire la tenuta sono proprio i personaggi, brillanti e sfaccettati; da rimarcare, poi, alcune battute esilaranti aggancia-risate come pure delle trovate originali felicemente spiazzanti (attenzione ai gatti!). “The Marvels” risulta un film godibile, votato all’evasione, in linea con la traiettoria dei film appartenenti al ciclo. Consigliabile, semplice, per dibattiti.
“Codice Carla” (Cinema, 13.11)
Daniele Luchetti è un regista che ama sperimentare, non rimanere fermo nel proprio perimetro narrativo. E così dopo solidi successi al cinema – “La scuola” (1995), “Mio fratello è figlio unico” (2007), “La nostra vita” (2010), “Lacci” (2020) – si sta confrontando ora con altri linguaggi e formati: dalla serie Tv “L’amica geniale. Storia di chi fugge e di chi resta” (2022) alla docuserie “Raffa” (2023). L’ultima fatica del regista romano è il documentario “Codice Carla”, grintoso omaggio alla stella della danza classica Carla Fracci e insieme acuto saggio sull’arte, sul ruolo-mestiere dell’artista e sull’estetica del corpo.
Prodotto da Anele, Luce Cinecittà e Rai Cinema, il film arriva nelle sale per un’uscita evento dal 13 al 15 novembre con Nexo Digital. “Codice Carla” ci conduce nelle pagine della biografia della celebre étoile milanese, che il regista racconta con una chiave originale, sorprendente e rock. Strutturato in otto capitoli, otto suggestioni (il corpo, il daimon, la morte, ecc.), il documentario ci mostra i momenti più significativi della vita e della carriera della Fracci, intervallati da riflessioni, ricordi e testimonianze di altri artisti. “Le domande che mi sono fatto – indica Luchetti – indagando sulla biografia e repertorio mi hanno spinto a costruire un ritratto prismatico che riguarda lei e la sua carriera, ma anche la figura degli artisti performativi, coloro che attraverso il loro corpo si fanno forma e opera d’arte”. Protagonisti, dunque, del documentario sono anche: Roberto Bolle, Jeremy Irons, Marina Abramovic, Carolyn Carlson, Eleonora Abbagnato, Gaia Straccamore, Alessandra Ferri, Hanna Poikonen Enrico Rava e Chiara Bersani.
Daniele Luchetti è riuscito con abilità a rendere finalmente un omaggio giusto e rispettoso alla grande diva della danza italiana, regalandole un ritratto non scontato, lontano dalla banalità, intessuto da una complessità artistica acuta e stimolante. Luchetti permette allo spettatore di accostarsi alla figura della Fracci sia pubblica che privata grazie a una varietà di filmati di repertorio forniti dall’Archivio Luce, dalla Rai e dalla famiglia dell’étoile, Beppe e Francesco Menegatti. In più, muovendosi su suggestioni musicali di matrice rock-elettronica composte da Thom Yorke (già leader dei Radiohead, qui nel doc con i brani realizzati con gli Atoms for Peace), Luchetti riesce a “manipolare” l’immagine della diva facendola riscoprire così moderna e attuale. Un’artista senza tempo. In più, si spinge con suoi inserti vocali (voice-over) qua e là persino a mettersi in dialogo con lei, rivolgendole domande o confidandole la propria meraviglia.
Il marito della Fracci, Beppe Menegatti, ha utilizzato probabilmente il commento più bello per descrivere il documentario: “Un film senza fronzoli!”. Ed è proprio così, “Codice Carla” è un film bello, intenso, arioso e vibrante, perfetto per ricordare un’icona sulle punte fuori dal comune. Consigliabile, poetico, per dibattiti.
La casa sulla roccia: Maletto (Catania)
Alle pendici dell’Etna, in provincia di Catania, la comunità parrocchiale di Maletto, quella dei Sacri Cuori di Gesù e Maria, racconta la propria esperienza.
Don Salvatore Paolo Cucè (il parroco, ma per tutti è padre Salvo) è il fratello e il padre di tutti.
Chiama a raccolta i fedeli e li invita a essere pietre vive di una casa molto più grande di quella in cui abitiamo: la Chiesa.
Le storie di Tina, Claudio, Mario, Nunzio, Arianna, Cristiano… parlano di un mistero: l’incontro con Dio.
Giovani, adulti, anziani. Ognuno ha un suo posto in questa casa; ognuno può parlare dell’incontro che gli ha cambiato la vita.
“Venite e Vedete”.
Per guardare la puntata intera de “La casa sulla roccia” dedicata a Villaricca (e anche quelle precedenti), clicca qui.
Europa. Mons. Crociata (Comece): “È possibile riemergere dalle difficoltà, se c’è la volontà di farlo insieme”
(da Bruxelles) Le sfide sono tante e gravi. La guerra in Ucraina e il conflitto scoppiato in Medio Oriente. La fatica per l’Unione europea di trovare compattezza e unità. La crisi economica e il diffuso clima di incertezza che accende, soprattutto nelle periferie, fenomeni di antisemitismo e polarizzazioni. “L’Europa ha bisogno di un senso di maggiore solidarietà nei Paesi e tra i Paesi” e di non dimenticare le sue radici, quel progetto costruito dai padri fondatori dallo sfacelo della Seconda guerra mondiale. La storia di allora è “un segno di speranza” per oggi. Dice che “è sempre possibile riemergere dalle situazioni di difficoltà” se c’è la volontà di lavorare insieme. Questo “il messaggio” che emerge dai vescovi dell’Unione Europea a conclusine di tre giorni di assemblea plenaria. A delinearlo in questa intervista al Sir, è mons. Mariano Crociata, presidente della Commissione delle Conferenze episcopali dell’Ue.
Cosa è emerso dai serrati scambi e discussioni che avete avuto tra voi vescovi e anche con rappresentanti delle istituzioni europei?
L’Europa si trova di fronte a diverse sfide. E’ chiaro che l’attualità legata alle guerre costituisce il punto più drammatico e delicato, anche perché si percepiscono degli effetti sul lungo periodo e sulla dinamica stessa dell’Unione Europea. Molti sono gli interrogativi: come si svilupperanno? Verso quali esiti? Quale durata avranno? Sono eventi che in larga misura dipendono da fattori esterni all’Unione Europea, ma le implicazioni sono destinate a farsi sentire molto anche qui, riportando una questione cruciale: la compattezza e l’unità dell’Unione, la sua capacità di diventare sempre più soggetto politico. Destano pertanto interesse tutti gli sforzi che si stanno facendo, le proposte e i progetti che stanno nascendo per cercare di dare all’Unione Europea una configurazione più stabile, più compatta, più unita, più capace di decisione.
Quale la posta in gioco?
La questione di fondo rimanda all’identità e alla dinamica stessa dell’Unione, e di conseguenza alla sua debolezza e alla difficoltà a trovare una unità di decisione, specialmente quando si tratta delle questioni importanti e complesse. Su alcune di esse l’Unione ha trovato immediata compattezza, come per esempio sull’Ucraina, ma su altre fa fatica a trovarla e a volte conosce momenti di divisione che preoccupano e che indeboliscono la sua azione. Come per le questioni relative alle migrazioni? Diciamo che la migrazione è una questione che rimane sempre molto seria e molto impegnativa: una materia che richiede la volontà di trovare un punto di accordo, perché se manca un orientamento chiaro, essa diventerà sempre di più non solo un problema grave per le persone migranti, ma anche fonte di conflitto e di tensioni tra i paesi e al loro interno.
La guerra in Ucraina ma soprattutto il conflitto esploso in Medio Oriente hanno purtroppo generato anche in Europa un clima di polarizzazione. Vi preoccupano questi fenomeni?
Si avverte un’irrequietezza che trova la sua origine in un clima diffuso di insoddisfazione e di scontento. In diversi paesi, i risultati elettorali sono spesso incerti e non danno un’indicazione chiara circa la maggioranza, ingenerando forme di difficile governabilità. Questo è un segnale di un malessere più grande, che genera uno stato di incertezza, politica certamente, ma anche sociale, e provoca o alimenta timori e insicurezza, vuoto di prospettive. La guerra, dove porterà? Gli immigrati, come si accoglieranno? L’economia, verso dove sta andando? E questo cosa produce? Può portare a reazioni estreme e radicali. Insorge di nuovo l’antisemitismo. Rinascono fenomeni di terrorismo che si accendono soprattutto in quegli ambienti sociali più emarginati e che di fronte alla insicurezza crescente, producono reazioni istintive, non pensate ma emotive.
Bruxelles, vescovi Ue riuniti in plenaria (Foto A. Di Maio)
Di fronte a questo quadro, quale la voce della Chiesa in Europa?
La voce principale continua ad essere quella del Papa, a cui ci uniamo con convinzione. L’Europa ha bisogno di un senso di maggiore solidarietà nei Paesi e tra i Paesi. Ha bisogno di crescere e di affrontare insieme le crisi con cui ci confrontiamo soprattutto oggi, a tutti i livelli. Non dimentichiamoci le nostre radici, quel progetto formidabile che hanno costruito i nostri padri fondatori proprio dallo sfacelo della Seconda Guerra mondiale. Lo hanno fatto mettendosi insieme anche tra Paesi che erano stati nemici e che si erano fatti la guerra fino a poco prima. C’è qualcosa dell’intelligenza evangelica in questo nuovo inizio. Un segno di speranza che parla ancora oggi. Come è stato allora, può essere possibile anche oggi riemergere dalle situazioni di difficoltà e anche quando le cose vanno male, non siamo condannati a rimanere sopraffatti dalle sfide e dai problemi, dalle ostilità e dalle divisioni. Penso alla crisi economica, al problema degli immigrati, alla difficoltà a lavorare tra paesi con esigenze diverse. Tutto questo, e altro ancora, può essere superato trovando dei punti in comune. È necessaria la volontà di farlo insieme. Ma è possibile. Questo bisogna sentire e scegliere.
Il prossimo anno si terranno le elezioni europee? Qual è la posta in gioca e perché andare a votare?
Le elezioni sono un’occasione ancora una volta imperdibile. L’Unione Europea è oggi minacciata da una disgregazione che viene purtroppo da tanti motivi, tra cui le guerre e i fattori politici e geopolitici internazionali. La posta in gioco per il futuro è alta. Per questo è importante far sentire a tutti i cittadini che è necessario partecipare alle elezioni. Uno dei pericoli più grandi per il futuro dell’Ue è la distanza tra i cittadini e le istituzioni europee. Il voto è anche un’occasione per colmare questa distanza.
Cure palliative. Cittadini e medici sempre più informati. Lonati (Vidas): “La cosa più difficile è trovare le parole giuste. Serve formazione ad hoc”
Cure palliative, non più queste sconosciute. Negli ultimi dieci anni è aumentata la consapevolezza sulle cure palliative: se nel 2011 il 41% dei nostri connazionali non ne aveva mai sentito parlare, oggi questa percentuale si è ridotta al 6%. La maggior parte di medici di medicina generale (Mmg) e specialisti si ritiene informata sul tema, mentre tra i pediatri solo uno su tre dichiara di esserlo. E’, in estrema sintesi, la fotografia scattata dallo studio Italiani e cure palliative: quanto ne sappiamo?, realizzato da Ipsos per Vidas – organizzazione di volontariato da 40 anni impegnata nell’assistenza gratuita dei malati inguaribili, adulti e bambini, assistendone ogni anno oltre 2.200 – in collaborazione con la Federazione cure palliative e con il contributo della Fondazione Giulio e Giovanna Sacchetti. La duplice indagine – 1.501 interviste presso un campione rappresentativo di adulti tra 18 e 75 anni per quanto riguarda i cittadini; 920 interviste presso un campione rappresentativo di medici territoriali e ospedalieri ambulatoriali in Italia per quanto riguarda i clinici – è stata presentata all’Università degli studi di Milano, sede della Scuola di specializzazione in Medicina e cure palliative, in occasione della Giornata nazionale delle cure palliative che ricorre l’11 novembre.
Sul territorio. Introdotte in Italia dalla legge n. 38 del 15 marzo 2010 “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore” – il loro fine non è guarire, ma alleviare la sofferenza del malato, migliorarne il più possibile la qualità di vita e sostenerne la famiglia. Possono essere somministrate a domicilio, in ambulatorio o in hospice. Secondo un rapporto di Agenas del 2022,
nel nostro Paese si contano 307 hospice, di cui 7 pediatrici.
Il numero maggiore (73) in Lombardia, seguita da Lazio (31) e Veneto (25). La PA di Bolzano conta solo due strutture; Molise e Valle d’Aosta uno.
Il punto di vista dei cittadini. Oggi, rispetto ad una precedente indagine del 2011,
otto italiani su dieci sanno che le cure palliative sono un diritto e devono essere erogate gratuitamente, ma il 57% non ha idea se siano attive sul proprio territorio.
Il 54% afferma di sapere bene o abbastanza bene di cosa si tratti, ma il 18% le ritiene sinonimo di terapie inutili, o “naturali”, o alternative alla medicina tradizionale. È comunque sempre più diffusa la convinzione (86%) che queste cure si occupino di migliorare la qualità della vita di persone gravemente malate e delle loro famiglie. Il 41% dei cittadini le riconduce al controllo del dolore e il 91% è molto o abbastanza d’accordo all’impiego di sostanze oppiacee (morfina e derivati) in fase terminale o avanzata e inguaribile di malattia, per alleviare la sofferenza fisica. “Come parte integrante della propria missione, Vidas si prende cura dei malati inguaribili anche attraverso costanti opere di sensibilizzazione sui grandi temi del vivere e del morire, di formazione e di informazione su temi normativi e scientifici”, spiega Antonio Benedetti, direttore generale dell’associazione che dal 1997 ha costituito un Centro studi e formazione con corsi di aggiornamento per tutte le figure dell’équipe multiprofessionale, oltre che per i giornalisti.
Il punto di vista dei medici. La ricerca misura per la prima volta la conoscenza e l’esperienza delle cure palliative anche tra i clinici, suddivisi tra medici di medicina generale (Mmg), pediatri di libera scelta (Pls) e specialisti ospedalieri. Dai risultati emerge che oltre l’80% dei medici è a conoscenza del diritto riconosciuto per legge alle cure palliative, tuttavia, esiste ancora una percentuale che ignora questa informazione: il 21% dei pediatri, il 17% degli specialisti ospedalieri, il 15% dei medici di medicina generale (Mmg). Tra i pediatri, in particolare, solo uno su tre si sente sufficientemente informato sulle cure palliative pediatriche. Oltre il 60% dei clinici è orientato a proporre le cure palliative quando i trattamenti non incidono più sul decorso della malattia, prima di arrivare alla fase terminale. “Secondo la ricerca, la pianificazione condivisa delle cure è un bene per oltre il 50% dei medici – afferma Giada Lonati, medico palliativista e direttrice sociosanitaria di Vidas -, ma
il vero ostacolo è parlare ai propri pazienti di malattia grave, prognosi infausta e morte.
I clinici sanno, in astratto, che cosa dovrebbero dire, ma per loro è difficile trovare le parole giuste. Perché le cure palliative affrontano un dolore globale, che ha una dimensione fisica ma anche psicologica, sociale e spirituale. Anche per questo è fondamentale una formazione ad hoc”.
Importante il contributo delle università. Come la Statale di Milano dove, spiega il rettore Elio Franzini, “è nata nel 2021 la prima cattedra universitaria di Cure palliative, a testimonianza del ruolo fondamentale che ha la formazione di specialisti in questo settore”. Per Giovanna Sacchetti, presidente della Fondazione Giulio e Giovanna Sacchetti, “il malato non deve mai essere lasciato solo e deve ricevere cure appropriate circondato dall’affetto dei suoi cari e protetto dall’attenzione di medici e operatori competenti e sensibili”. Importante, inoltre,
“la costruzione culturale di un linguaggio comune e condiviso, anche da non addetti ai lavori”.
Ali di Vela: qualcosa in più di un semplice corso per principianti velisti
Conoscere e preparare il proprio corpo che, come una barca a vela pronta a prendere il largo, impara a navigare nel mare aperto della malattia e, insieme ai suoi compagni, apprende come affrontare e gestire, giorno dopo giorno, i pericoli e le difficoltà del viaggio lungo delle cure col desiderio e l’obiettivo di giungere alla meta della guarigione. E laddove la guarigione non sia possibile, almeno provare a fare il possibile per rendere il viaggio più accettabile se non, esso stesso, fonte di vita. È il senso di “A gonfie vele”, un innovativo progetto terapeutico rivolto alle persone in cura e post-cura oncologica basato sulla pratica dello sport della vela. La malattia, infatti, fa perdere i riferimenti e costringe la persona a vivere l’incertezza, la frustrazione e il rischio di isolamento. Il progetto cerca quindi di sviluppare nei pazienti la capacità di adattamento ad eventi esterni indipendenti dalla propria volontà, la condivisione per operare scelte determinanti e riscoprire così la naturalità della malattia.
Tutto nasce nel 2012 dalla intuizione di una istruttrice di vela che, osservando i benefici dei corsi dedicati a persone con disabilità effettuati presso il Centro Velico di Caprera (Cvc), pensa di proporre la stessa esperienza ai pazienti oncologici. A raccogliere la sua idea un’amica psico-oncologa che grazie all’adesione dell’Associazione Umbra per la Lotta contro il cancro (Aucc) e soprattutto alla disponibilità del Cvc dà vita alla fattibilità del progetto.
Da allora, annualmente, 10-15 pazienti oncologici autosufficienti di età varia, in diverse fasi della malattia, insieme a due tre psico-oncologi ed un paio e un paio tra medici e/o infermieri della Oncologia medica di Perugia, raggiungono Caprera per una settimana a dir poco inusuale.
In un contesto spartano ed essenziale (non alberghi ma camerate in Tukul con letti a castello e bagni in comune, esterni), isolati dai rumori vacanzieri, circondati da rocce granitiche, mare cristallino e profumati arbusti di mirto, gli improbabili neofiti della vela vengono proiettati in un percorso di apprendimento del linguaggio e dei rudimenti dell’arte navale della navigazione. Ogni giornata ha i suoi ritmi e i suoi appuntamenti.
Dopo la lezione mattutina, sotto la guida rassicurante degli istruttori (tutti volontari) si passa alla pratica e l’imbarazzo e le paure lasciano immediatamente spazio all’emozione della novità. Gli allievi sono desiderosi di abbandonarsi al vento con l’ambizione di poterlo controllare, anzi, usare affinché possa condurli verso le mete desiderate.
Le metafore ricavabili per i pazienti e gli operatori sanitari sono infinite, a cominciare dal ritrovarsi proiettati in una realtà inconsueta, per lo più sconosciuta, come quella malattia che da un momento all’altro assale e trascina in una nuova dimensione.
L’obiettivo è “imparare”! Imparare a preparare e gestire la propria barca, l’ambiente nuovo e privo di certezze in cui si è stati costretti a vivere, sballottata e fragile e resa ancora più instabile dal beccheggio e dal rollio delle onde. È la nuova vita che ogni paziente è chiamato a vivere, cambiata dall’arrivo della tempesta della malattia che impone i suoi ritmi e le sue scelte. Per questo è necessario apprendere nuove tecniche di sopravvivenza per coordinare al meglio il nuovo viaggio. E le affinità sono tante.
Distinguere tra l’infinità di cime multicolori e sconosciute (cime, non corde) e saperle riconoscere (ognuna ha la propria funzione) è un po’ come rispondere alle sollecitazioni della malattia che costringe a riconoscere momenti e situazioni. Un modo per aiutare il malato a non restare impantanato nelle sabbie mobili di (a volte) incomprensibili percorsi burocratici o del susseguirsi di indagini e valutazioni talora con esiti discordanti.
Ed eccoci ad allestire le vele: bisogna anzitutto sceglierle (randa e fiocco solitamente), estrarle dai ripostigli (gavoni), toglierle dai sacchi, stenderle sulla barca (anche se non c’è spazio sufficiente) e fissarle pazientemente agli appositi punti (mura, albero). Operazioni importanti che richiedono una manualità da acquisire in fretta e fare propria, necessaria per passare alla fase operativa. Subito dopo infatti drizzare e fissare sia la randa che il fiocco, cui vanno legate le “scotte” che serviranno a tendere (cazzare) o allentare (lascare) la vela. Una metafora, questa, della loro esistenza e in particolare della prima fase della loro malattia, caratterizzata da procedure bioptiche, interventi chirurgici, confezionamento di stomie, posizionamento di accessi venosi stabili, endoprotesi. Fasi tutte da affrontare e superare.
Finalmente arriva il momento di sciogliere gli ormeggi e per farlo bisogna scegliere il momento giusto: attendere il brandeggio (oscillazione spontanea della barca rispetto al punto di ormeggio) favorevole; scegliere la galloccia (punto di fissazione sulla barca delle cime di ormeggio) adatta a favorirlo, e poi, si va! Si va e ci si abbandona alla forza del vento, ora troppo, ora troppo poco, agendo sul timone (orzando o puggiando) e sulla tensione delle vele (cazzando o lascando) perché la barca vada nella direzione voluta, magari zigzagando, seguendo un’andatura quasi innaturale oppure, a volte, scegliendo di andare anche contro la direzione del vento (bolina). E così è nella malattia, quando il percorso di cura indirizza in itinerari talora contorti, ma comunque diretti verso l’obiettivo che spesso si trova “controvento”. Ma c’è un elemento che rende il percorso ancora più unico e importante: viaggiare insieme! Giorno dopo giorno i partecipanti scoprono di non essere più soli ma parte di un equipaggio dove ognuno svolge un compito e ricopre un ruolo ben preciso: dal regolare vele allo scegliere la cima giusta; dal guidare il timone allo spostare il proprio peso per favorire l’andatura. Insieme! Perché il vento ti porti, non però dove lui vorrebbe, senza mai però perdere il controllo dell’andatura.
Al rientro poi il momento della riflessione comune, guidato dagli psicologi che consente di condividere “a caldo” quanto vissuto nella giornata. Emozioni, suggestioni, stimoli, scoperte, paure del noto e dell’ignoto, inevitabilmente legate e riferite all’esperienza della malattia. Condividere, per sentirsi equipaggio e non navigatori solitari. Perché il vero obiettivo del nostro viaggiare nel mare della vita, anche nella malattia, diventi il viaggio stesso, e la meta solo un pretesto.
Alluvione in Toscana: è l’ora di dire basta ai ritardi nella prevenzione
Marche 16 settembre 2022, Ischia 26 novembre 2022, Romagna 1 maggio 2023, e dal 3 novembre la nostra Toscana. Sono le 4 devastanti alluvioni del nuovo clima che hanno colpito l’Italia, intervallate da un centinaio di eventi meteo estremizzati di portata minore ma con vittime e danni. Indicano che tutto è cambiato, mettono a nudo stati di dissesto idrogeologico e territori fin troppo cementificati per poter essere difesi, difese che non bastano più perché immaginate per altre fasi climatiche.
Che tutto è cambiato lo dimostra anche il nostro lessico. Non esiste più il classico “temporale” ma improvvisi flash flood, cicloni extratropicali, tifoni e uragani, medicane e tornado, mesocicloni e temporali auto-rigeneranti che si auto-alimentano imprevedibili e tropicalizzati con precipitazioni “esplosive”. E proprio quest’ultima tipologia ha colpito la nostra piana.
Sono fenomeni ancora difficili da intercettare, come rileva il consorzio Lamma, nato dall’intuizione del grande meteorologo Giampiero Maracchi che il 19 giugno del 1996, dopo l’alluvione imprevista dell’alta Versilia con 15 morti e previsioni del tempo che davano “sereno”, coniò l’espressione bellica “bomba d’acqua”, certificando la prima alluvione del cambiamento climatico in atto.
Oggi, le temperature del Mediterraneo mai così calde, caricano di energia l’atmosfera che scarica a terra fenomeni violenti e concentrati. E se fino al Novecento si contavamo tra 5 o 6 eventi estremi ogni 10-15 anni, dal Duemila siamo a un centinaio all’anno, di portata minore ma con vittime e danni.
Ma se vi sono eventi nella nostra storia che possono fare da spartiacque, l’alluvione della piana è uno di questi. La durissima emergenza per decine di migliaia di famiglie, i 7 morti, il sistema produttivo in ginocchio da Campi a Prato e Pistoia, impone uno scatto di responsabilità. Di tutti. Non facciamo più finta di non avere alle spalle, noi italiani, un archivio di catastrofi con 29.000 alluvioni e 11.000 frane nell’ultimo secolo che hanno colpito circa 14.000 luoghi della penisola, lasciando oltre 6000 morti, centinaia di migliaia di feriti, invalidi, orfani e milioni di sfollati, con un esborso in media annua per riparare i danni di 4 miliardi di euro dal 1946, cifra che negli ultimi 10 anni è quasi raddoppiata. E anche la Toscana ha l’obbligo di aumentare e rafforzare le difese, aggiornando i piani di prevenzione, riducendo il consumo di suolo, cancellando l’espansionismo edilizio su suoli a rischio idrogeologico, educando alla gestione del rischio.
La Toscana è entrata nell’ora più buia proprio il 4 novembre, e rivive oggi i giorni terribili di 57 anni fa quando l’Arno, rotti tutti gli argini, travolse a 70 km orari Firenze, rovesciando tonnellate di acqua, fango, melma e detriti anche in molti altri comuni toscani. Firenze rimase isolata per 4 terribili giorni. C’erano già 35 morti, 70.000 famiglie alluvionate, 6.000 negozi devastati, 20.000 automobili sott’acqua e nel fango, migliaia di officine, fabbriche, laboratori, tipografie, botteghe artigianali e cantine allagate. Mancava tutto. Ma la città si auto-organizzò, aiutata dalla prima mobilitazione spontanea soprattutto dei giovani, gli “angeli del fango” che abbiamo visto in azione da allora dopo ogni catastrofe. Giunsero in città da ogni parte d’Italia e da molti Paesi del mondo. Da quella devastazione non nacque solo la grande scuola del restauro italiano, ma dalla forza delle ragazze e dei ragazzi del ‘66 nacquero le grandi associazioni del volontariato e la stessa Protezione civile.
Perché vale la pena, ricordarlo? Perché è l’ora di dire basta ai ritardi nella prevenzione. Perché dopo quel 1966 a Roma iniziò una storia di annunci di progetti per la sicurezza dalle alluvioni dell’Arno, di firme di finti accordi per finanziamenti solo immaginari, di promesse e rinvii durati 48 anni! Mezzo secolo! Tempi morti durante i quali la Toscana riuscì almeno a costruire la diga di Bilancino e lo scolmatore di piena di Pontedera. Solo nel luglio del 2014 i cantieri immaginati nel 1970, con 4 casse di espansione, sono stati inaugurati, e intorno all’Arno oggi c’è un sistema di difesa per contenere a monte 60 milioni di metri cubi di acqua di piena. Ma non è così per molti corsi d’acqua minori e moltissimo o tutto resta da fare.
Mai come oggi, serve uno scatto di responsabilità di tutti, per contrastare un repertorio di pericoli evidenti “mettendo a terra” opere e interventi che servono. Affiancati da tanta educazione alla conoscenza dei fenomeni naturali e alla gestione delle fasi di emergenza. È il cantiere più utile di cui abbiamo urgente bisogno.
(*) presidente Earth and Water Agenda
Alluvione in Toscana: gli “angeli del fango” giunti da tutta la Regione
“Se avessero buttato una bomba, ci sarebbero stati meno danni”; “Noi la sera torniamo a casa a farci una doccia ma loro devono rimanere nel fango”; “Braccia! Ci serve una mano a buttare i secchi!”. Queste le voci che domenica scorsa riempivano le strade, già sommerse dalla melma, di Campi Bisenzio. Parole di tristezza pronunciate dai 23mila cittadini colpiti dall’esondazione del fiume Bisenzio, che si mescolavano ai sorrisi delle centinaia di giovani volontari giunti da tutta Toscana. Ancora una volta, gli angeli del fango.
Nelle vie del centro c’è chi ha perso tutto: garage, casa, automobili e motociclette. I libri scolastici vengono usati come tappabuchi per non far rifluire il fango nelle strade, mentre squadre di ragazzi portano in salvo dagli studi professionali enciclopedie e collezioni ormai fradicie. Dai tombini, molti ancora intasati, sono recuperati a mano dvd e interi album che contenevano fotografie di chi sa quale viaggio o ricordo di famiglia. Ma le lacrime dei tanti alluvionati campigiani, domenica, erano consolate dai volti sorridenti dei giovani pronti a spalare, formare catene umane e portare in salvo il salvabile. “Son cresciuta a Campi ma non vivo più qua – racconta Sara Nencini, mentre si prende una pausa dal fango con il viso ancora pieno di macchie – sono venuta con tanti altri amici ad aiutare perché siamo estremamente addolorati e vogliamo che ripartano il prima possibile”. Anche a lei, pur entusiasta della solidarietà che ha abbracciato la cittadina, l’alluvione ha lasciato un forte senso di amarezza: “Sono arrivata tardissimo oggi – confessa – perché, mentre mi avvicinavo, ho avuto un attacco di panico in macchina”.
A mandare avanti la macchina dei soccorsi, i volontari da ogni parte della Regione. Oltre ai giovani fiorentini, anche le Misericordie da Camaiore, Bivigliano, Volterra e da tutta la Toscana affollavano la città bloccata dal fango. Anche i bambini spalavano la melma dai cortili in cui giocavano fino a settimana scorsa. “Sono qui dalle 9.30 – racconta Niccolò – sono partito dal Municipio dove davano attrezzi e tute, poi sono entrato nel centro allagato per spalare. Ma ogni zona ha i suoi problemi: in alcune la melma è già secca, in altre è liquida ed è molta di più”.
Un impegno premiato anche dai tanti alluvionati della piana, che hanno messo a disposizione cibo, acqua e le poche cucine agibili per sostenere i volontari nell’ora di pranzo. Senza mai perdere il sorriso. “Se non ci fossero stati ragazzini e ragazzine di venti anni, non avremmo avuto aiuto da chi dovrebbe darlo – spiega Daniele Porri, mentre asciuga con una spugna quel che resta della sua auto allagata -. Ho perso la casa, il piano terra, la macchina e il furgone: che devo dire di più?”. Con le lacrime agli occhi e con le mani ancora al lavoro, il suo – come quello di tanti altri campigiani – è un allarme lanciato anche alle istituzioni: “Abito a Campi da sempre e ho vissuto anche l’alluvione del 1991, ma la differenza è come fra il giorno e la notte: allora c’era un’autorità, ora non c’è nessuno. Ci sono rimasto male”.
Nel carcere minorile di Casal del Marmo nasce la pasta “Futuro”. Il pastificio impiegherà 20 giovani detenuti
Per la prima volta nell’istituto penale per minorenni di Casal del Marmo, appena fuori dalle mura del carcere, nasce un progetto per l’inserimento lavorativo dei ragazzi. Si chiama “Pastificio Futuro” e sarà inaugurato oggi, venerdì 10 novembre, alle ore 16, con la presenza del cardinale Angelo De Donatis, vicario di Roma, del segretario generale della Cei e arcivescovo di Cagliari Giuseppe Baturi e di numerose figure istituzionali. La pasta “Futuro” sarà un prodotto di qualità e l’iniziativa potrà coinvolgere nel tempo fino a 20 ragazzi e ragazze detenuti nel carcere di Casal del Marmo o che stanno scontando la pena all’esterno, in casa o in altre strutture. All’inaugurazione saranno presenti anche quattro chef stellati che offriranno un assaggio di pasta secca “Futura”, che sarà distribuita nelle catene di supermercati e nei ristoranti. Gestirà il progetto la cooperativa sociale Gustolibero. La realizzazione è stata possibile anche grazie al contributo dell’8 per mille della Cei e della Caritas italiana.
don Nicolò Ceccolini, cappellano del carcere minorile di Casal del Marmo – (foto: SIR)
Una idea nata 10 anni fa. “Il pastificio raccoglie l’invito che il Papa lanciò nel 2013 durante la sua prima visita a Casal del Marmo, quando disse ai ragazzi ‘Non lasciatevi rubare la speranza’”, dice al Sir don Nicolò Ceccolini, cappellano del carcere minorile romano di Casal del Marmo da dodici anni. Il suo predecessore, padre Gaetano Greco, lanciò l’idea del pastificio. Ci sono voluti 10 anni per riuscire ad abbattere una palazzina adiacente al carcere, poi ricostruirla. “E’ una novità per Casal del Marmo avere un progetto lavorativo all’esterno della cinta muraria – spiega -. All’interno vengono fatte altre attività di formazione come la pasticceria, la pizzeria, la falegnameria, un corso di giardinaggio e di parrucchiere”.
Al momento sono stati scelti tre ragazzi, tra cui una ragazza che entra ed esce dal carcere per lavoro, secondo l’articolo 21 della Legge sull’ordinamento penitenziario. Gli altri due erano a Casal del Marmo e ora stanno continuando a scontare la loro pena all’esterno. “Iniziano in tre perché devono essere introdotti piano piano al mondo del lavoro – aggiunge don Nicolò -. Però il pastificio può occupare fino 20 ragazzi. La produzione a pieno regime può raggiungere 2 tonnellate di pasta al giorno”.
Il cappellano ha un ruolo di intermediazione tra l’istituzione carceraria e il mondo esterno, anche nella scelta dei ragazzi da impiegare. “Vanno scelti accuratamente tra chi ha un comportamento buono – precisa -. Soprattutto devono essere affidabili, perché dovranno uscire dal carcere e rientrare in autonomia. Prima di tutto vogliamo formarli perché imparino un mestiere ed entrino nel mondo del lavoro, con un vero e proprio contratto lavorativo”.
“L’idea è di valorizzare i talenti e i doni dei ragazzi
– prosegue il cappellano -. È vero che hanno fatto tanto male, però hanno dentro anche tanto bene che può essere espresso. Il carcere ti cambia in meglio o in peggio. Dipende dalle persone che trovi: alcuni ti possono aiutare a diventare una luce, altri no. Quando arrivano sono come navi alla deriva che si scontrano contro una scogliera, abbandonati a sé stessi. Tanti pezzi che bisogna riassemblare. La prima opera risanatrice è quindi far sentire ogni ragazzo degno di stima”.
Il pastificio Futuro (foto: cappellania Casal del Marmo)
Attualmente a Casal del Marmo sono in una situazione di sovraffollamento, con 55 ragazzi e ragazze su una quarantina di posti disponibili. “Non si riesce a garantire la divisione tra giovani e giovani adulti (fino ai 25 anni) perché ci sono tanti ingressi – racconta il cappellano -. A volte, compiuti i 25 anni, passano nelle carceri per adulti. In altri casi i magistrati decidono di mandarli in altre strutture per evitare il passaggio nelle strutture per adulti, dove si rischia di annullare tutto il lavoro di recupero fatto”.
Il pastificio Futuro (foto: cappellania Casal del Marmo)
In Italia sono 470 i giovani detenuti in 17 istituti penitenziari per minorenni. In totale stanno scontando la pena in comunità e altre strutture quasi 16.000 ragazzi. La metà è straniera. Nel 60% dei casi si tratta di reati contro il patrimonio, a seguire spaccio e reati contro la persona. “Durante la pandemia c’è stato un calo di reati, ora stiamo subendo le conseguenze del Covid – osserva don Ceccolini -. C’è un incremento della violenza, del bullismo e tanta rabbia. I reati vengono commessi con superficialità, senza dare valore alla vita umana. Il carcere può andare bene per aiutare i ragazzi a riflettere, però bisogna riempire questo tempo fermo di significati, altrimenti si rischia che escano più incattiviti di come sono entrati. Il carcere purtroppo è anche una scuola del crimine, dove si impara ancora meglio a delinquere”.
S.B. Shevchuk: “Non bisogna rassegnarsi mai alla guerra, è sempre una tragedia”
(da Bruxelles) “Ottobre è stato in Ucraina il mese più sanguinario dell’ultimo anno”, per numero di vittime, ucraine e russe. “Una carneficina”. Ma “all’idea della guerra non ci si può rassegnare” perchè “la guerra è sempre una tragedia e come tale deve assolutamente finire in un accordo di pace”. A parlare è Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, capo della Chiesa greco-cattolica ucraina. Il Sir lo ha incontrato a Bruxelles dove è arrivato per partecipare all’assemblea plenaria dei vescovi Ue (Comece) e per incontrare i rappresentanti della Commissione europea: Olivér Várhelyi, commissario europeo per l’allargamento e la politica di vicinato della Commissione Ue, e Michael Siebert, direttore esecutivo per le questioni legate all’Europa orientale. È di mercoledì 8 novembre l’annuncio fatto in conferenza stampa dalla presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen: con il primo via libera ai negoziati per l’ingresso di alcuni paesi tra cui l’Ucraina, è stata inaugurata una nuova stagione per l’Unione europea.
S.B. Shevchuk presso la sede della Comece (Foto Sir)
Beatitudine, come ha appreso questa notizia?
È forse una coincidenza, ma esattamente 10 anni fa sono venuto qui a Bruxelles con i capi delle Chiese e delle organizzazioni religiose riuniti nel Consiglio pan ucraino. Eravamo venuti qui per dichiarare la volontà del popolo ucraino di ritornare alla famiglia delle Nazioni europee. Avevamo portato ai Vertici europei un documento che portava le firme dei leader delle chiese cristiane e delle comunità ebraiche e musulmane. Oggi quel testo è sottoscritto con il sangue dei figli e delle figlie del popolo ucraino. È per difendere quel progetto europeo che in Ucraina è scoppiata la rivoluzione della dignità e nel 2014 è cominciata l’invasione russa in Crimea e in Donbass. E la causa fondamentale dello scontro militare che noi viviamo oggi, scaturisce proprio dal rinnegamento politico di questa identità di popolo. Oggi sento che finalmente l’Unione europea ha aperto le sue porte. Se questo passo fosse stato compiuto 10 anni prima, forse tante vittime potevano essere risparmiate.
Perché dice così?
L’Europa è una famiglia delle nazioni. Una civiltà, non soltanto un’unione economica. Se non fossimo stati abbandonati al nostro desiderio, se non si fosse privilegiata l’economia alla dignità della persona umana, se si fosse concessa la possibilità al popolo di scegliere, riconoscendolo non come oggetto di negoziato fra Europa e la Russia ma come soggetto del proprio futuro, allora, 10 anni fa, si potevano salvare tante vite umane.
S.B. Shevchuk parla ai vescovi Ue riuniti in plenaria (Foto A. Di Maio)
Che valore, dunque, hanno oggi le parole della Von der Leyen?
Sono un incoraggiamento, anche morale, anche psicologico. Ci dicono che tutte queste vittime che hanno difeso l’identità europea del nostro popolo, non sono state vane. Qualcuno finalmente riconosce chi sono gli ucraini, per cosa vivono e per cosa muoiono.
Cosa rappresenta per voi l’Unione europea?
I valori della dignità della persona, della vita umana. Il bene comune. È chiarissimo che la guerra in Ucraina non è lo scontro fra due nazioni ma fra due progetti. Da una parte c’è la Russia che insegue il ritorno ad un glorioso passato. Il passato di un impero che vuole riconquistare l’Ucraina, sua vecchia Colonia, per riportarla sotto un sistema dittatoriale. Dall’altra c’è l’Ucraina che vuole andare avanti, che guarda al futuro e non vuole tornare indietro.
Di cosa ha paura la Russia?
Se l’Ucraina veramente diventasse un paese libero e democratico, questo rappresenterebbe una forte provocazione per gli altri paesi post sovietici. Sarebbe la prova e la testimonianza che essere liberi è possibile. È una provocazione tremenda.
Si sta parlando molto e giustamente della situazione in Medio Oriente e molto poco della guerra in Ucraina. Che notizie ci sono?Noi viviamo la tragedia della Terra Santa come la nostra tragedia. Siamo molto vicini al popolo israeliano perché come a loro, anche al popolo ucraino si nega il diritto stesso dell’esistenza. E siamo molto vicini ai cristiani di Palestina e dello Stato dell’Israele. È interessante notare che il conflitto in Terra Santa è iniziato il 7 ottobre a seguito dell’azione terroristica di Hamas. In Ucraina, ottobre è stato il mese più sanguinario dell’ultimo anno. I russi hanno sacrificato 1.000 propri soldati ogni giorno e i nostri prigionieri di guerra ucraini sono stati fucilati in massa. Una carneficina. La guerra in Ucraina sta continuando, il rischio è che diventi una guerra silenziata, una guerra dimenticata. Così come succedeva 10 anni fa in Donbass e in Crimea. Tutto questo rende urgente progettare il futuro con un piano diplomatico.
(Foto A. Di Maio)
Si vede poca diplomazia della pace, anche qui in Unione europea. A proposito, come sta andando la missione del card. Zuppi?Stando in Italia per partecipare al Sinodo, ho potuto visitare Bologna e andare a trovare il cardinale. Concordavamo su un fatto: non possiamo abituarci alla guerra perchè la guerra è sempre una tragedia. È anche vero però che ogni guerra finisce con un accordo di pace. E questo accordo di pace può essere tessuto già da noi e già oggi. Abbiamo parlato tanto dei bambini ucraini rapiti dai russi. Questione sulla quale purtroppo per il momento non siamo stati capaci di ottenere nessun risultato. Bisogna insistere, continuare a cercare tutte le vie possibili per liberare questi bambini. Costruire la pace chiede la virtù della perseveranza nel bene. Non bisogna rassegnarsi. La guerra ha una logica viziosa e maligna. Gli uomini che la cominciano, poi ne diventano schiavi. La guerra si impadronisce di tutto e l’uomo che ne cade vittima, non riesce più ad uscire fuori da questa gabbia. Dal punto di vista umano, la situazione potrebbe davvero essere causa di disperazione. Ma se guardiamo ai Padri fondatori del progetto europeo, a Schumann e Adenauer, loro non si sono fatti vincere dalla disperazione ma sulle macerie della Seconda guerra mondiale hanno costruito l’Europa come un progetto di pace europea che ha coinvolto tutte le nazioni. Dobbiamo seguire il loro esempio.
H.B. Shevchuk: “We must never resign ourselves to war, it’s always a tragedy”
(from Brussels) “In the past year, October was the cruelest month in Ukraine”, in terms of the number of victims, both Ukrainian and Russian. “A massacre.” But “we cannot resign ourselves to the idea of war.” “War is always a tragedy, and, as such, it must end with a peace agreement.” Interview with His Beatitude Sviatoslav Shevchuk, head of the Ukrainian Greek Catholic Church. SIR met him in Brussels, where he is attending the Plenary Assembly of the Bishops of the EU (COMECE) and meeting representatives of the European Commission: Olivér Várhelyi, European Commissioner for Enlargement and Neighbourhood Policy, and Michael Siebert, Executive Director for Eastern Europe. On Wednesday November 8, the President of the European Commission, Ursula von der Leyen, announced at a press conference: the first green light to opening accession negotiations of a number of countries, including Ukraine, ushers in a new season for the European Union.
Your Beatitude, what was your reaction to this announcement?
It may be a coincidence, but it was exactly 10 years ago that I came here to Brussels with the heads of Churches and religious organisations gathered in the Pan-Ukrainian Council. We came here to proclaim the will of the Ukrainian people to rejoin the family of European nations. At the European summits we presented a document bearing the signatures of the leaders of the Christian churches and the Jewish and Muslim communities. Today that document is signed with the blood of the sons and daughters of the Ukrainian people. It was to defend this European project that the Revolution of Dignity broke out in Ukraine and the Russian invasion of Crimea and Donbass erupted in 2014. And it is the political denial of this people’s identity that is at the origin of the military confrontation we are witnessing today. Today I feel that the European Union has finally opened its doors.
If this step had been taken 10 years ago, perhaps so many victims could have been spared.
H.B. Shevchuk addressing the EU Bishops gathered in plenary meeting (Photo A. Di Maio)
Why are you saying this?
Europe is a family of nations. A civilisation, not just an economic union. Had we not been left to our own devices, had we not prioritised the economy over the dignity of the human person, had we allowed the people to choose, recognising them not as the object of negotiations between Europe and Russia but as the agents of their own future, then, 10 years ago, many human lives could have been saved.
How important are von der Leyen’s words today?
They are an encouragement, a moral encouragement as well as a psychological encouragement. They are a message to us that all those victims who were defending the European identity of our people did not die in vain. At long last, finally, the Ukrainians are being recognised for who they are, what they live for and what they die for.
What does the European Union mean to you?
It stands for the values of human dignity, human life. The common good. It is clear to everyone that the war in Ukraine is not a clash between two nations, but between two projects.
On the one side, there is Russia, which wants to restore a glorious past. This past is an empire that wants to reconquer Ukraine, its old colony, and place it under a dictatorship. On the other side is Ukraine, which wants to move forward, which is looking to the future and has no intention of returning to the past.
What does Russia fear?
If Ukraine really became a free and democratic country, it would be a strong provocation for the other post-Soviet countries. It would be proof and testimony that freedom is possible. It is a strong provocation.
Much is being said, and rightfully so, about the situation in the Middle East and very little about the war in Ukraine. What news is there? We experience the Holy Land’s tragedy as our own. We feel very close to the Israeli people. Like them, the Ukrainian people are being denied their right to exist. And we feel very close to the Christians of Palestine and the State of Israel. Interestingly, the conflict in the Holy Land broke out on October 7 as a result of the terrorist action of Hamas. In Ukraine, October was the cruellest month of the past year. The Russians sacrificed 1,000 of their own soldiers every day and Ukrainian prisoners of war were shot en masse. A massacre.
The war in Ukraine rages on, with the risk of becoming a silent war, a forgotten war. As was the case ten years ago with Donbass and Crimea. All of this points to the urgent need to plan for the future with a diplomatic agenda.
There is hardly any peace diplomacy, even here in the European Union. Speaking of which, how is Card. Zuppi’s mission progressing? While I was attending the Synod in Italy, I had the opportunity to go to Bologna and visit the Cardinal. We agreed that it is important not to get used to war, which is always a tragedy. However, it is equally true that every war ends with a peace agreement. And this peace agreement can be forged by us today. Much has been said about the Ukrainian children abducted by the Russians. This is an issue on which, unfortunately, no progress has been made so far. We must insist, we must continue to seek all possible ways to free these children. Peace-building requires the virtue of perseverance in goodness. We must not give up. War has a vicious and malignant logic. The men who wage it ultimately become its slaves. War seizes everything and the man who falls victim to it is no longer able to break out of this cage. From a human point of view, the situation may indeed be a cause for despair. But if we look at the commitment of the Founding Fathers of the European project, Schumann and Adenauer, they did not allow themselves to be overcome by despair. Instead, they built Europe out of the ashes of the Second World War as a European peace project involving all nations. We must follow their example.