Carceri. Don Grimaldi: “Impegniamoci tutti per rendere le nostre carceri luoghi di speranza, rinascita e riscatto”
Carceri sovraffollate, episodi di violenza, mancanza di futuro e suicidi, malattie psichiatriche, accuse di tortura… Il mondo carcerario soffre ormai da anni di tutti questi problemi. C’è chi si spende tantissimo per rendere più dignitosa la vita dei ristretti come i cappellani ed è proprio con l’ispettore generale, don Raffaele Grimaldi, che facciamo il punto della situazione, non dimenticando quanto alla Papa e alla Chiesa italiana sia a cuore questo mondo.
(Foto: don Raffaele Grimaldi)
Come va negli istituti, don Raffaele?
In carcere le emergenze non cambiano tanto dall’estate all’autunno e all’inverno, anche se d’estate si aggiungono il caldo e lo stop di molte attività. I problemi che abbiamo nei nostri istituti sono un po’ incancreniti: sovraffollamento, mancanza di risorse e di personale, spazi inadeguati per la riabilitazione “seria” dei ristretti, soprattutto il problema dell’emergenza psichiatrica nei nostri istituti. Sappiamo bene che attraverso la chiusura degli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari) molti detenuti sono rientrati nelle carceri perché le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) erano poche. Molti istituti vivono questo grande disagio perché il peso della gestione di persone con queste problematiche viene affidata alle strutture penitenziarie che sono anche impreparate a gestire detenuti psichiatrici. Spesso quando leggiamo di aggressioni in carcere avvengono tra personale e questo tipo di detenuti. È vero che il Governo ha stabilito che i detenuti violenti vengano spostati in altri istituti o in altre regioni, ma se i problemi nascono da persone con problemi psichiatrici lo spostamento non risolve il problema. Lo spostamento ha un maggior impatto su chi compie un atto violento ma non ha problemi psichiatrici, chiaramente. Al di là dei reati che hanno commesso i detenuti, dobbiamo ricordare sempre che sono persone da rispettare nella loro dignità.
Ogni tanto emergono anche notizie di agenti di Polizia penitenziaria indagati per presunte torture…
Sì, può succedere, però, voglio spendere una parola di vicinanza agli agenti della Polizia penitenziaria, che si devono barcamenare negli istituti tra tante problematiche, ci sono turnazioni che non aiutano le persone a svolgere con serenità il proprio lavoro, quando, poi, qualche collega viene meno a causa di qualche giorno di malattia ricade sugli altri la responsabilità e il lavoro aumenta. Allo stress del lavoro si aggiunge il fatto che nei nostri istituti l’utenza è molto cambiata tra senza fissa dimora, malati psichiatrici, immigrati, persone che non conoscono l’italiano e non comprendono le regole. Tutto questo influisce sullo scatenarsi di violenze. I problemi ci sono e non bisogna trascurarli, se si trascurano, s’incancreniscono e diventano situazioni difficili da risolvere.
Dopo il suicidio di un ventottenne nella casa circondariale di Caltanissetta, che sarebbe uscito solo tra sei mesi, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (Gnpl) ha ricordato che sono 54 le persone detenute che si sono tolte la vita dall’inizio del 2023, con una una media di un suicidio quasi ogni 5 giorni…
Quando parliamo di suicidi in carcere, c’è il rischio di abituarci a queste notizie. È giusto, perciò, il richiamo del Garante. Le persone, che compiono questo gesto estremo con cui mettono fine tragicamente alla loro vita, sono molto fragili, non dovrebbero stare in carcere, avrebbero bisogno di un altro tipo di strutture, dove potrebbero essere seguite in modo diverso, con professionalità specifiche. Oggi si parla tanto di guerra, dall’invasione russa dell’Ucraina al conflitto tra lo Stato di Israele e Hamas, di morti innocenti, di violenze. E, purtroppo, nei nostri istituti penitenziari, tante volte nel cuore di questi detenuti che decidono di suicidarsi c’è un combattimento interiore.
Se non hanno persone che li accompagnano, questa “guerra” rischia di finire con il suicidio.
Questi drammi, proprio come nel caso di Caltanissetta, spesso si consumano alla vigilia o a pochi mesi dall’uscita dal carcere. Stranieri, senza fissa dimora, detenuti abbandonati dai familiari possono avere paura di uscire dal carcere perché sono senza prospettive e senza punti di riferimento, per non affrontare nuovi rifiuti e nuove difficoltà. Gli operatori che lavorano in carcere fanno il loro dovere, quello che è possibile, ma non è facile rapportarsi a detenuti che vivono situazioni di fragilità. Non dimentichiamo, poi, la scarsità di personale, soprattutto specializzato.
Da parte della società civile si sta facendo qualche passo avanti nell’apertura verso questo mondo?
Se non c’è un cambiamento a livello culturale, se non c’è un’attenzione a questa umanità fragile, non cambierà mai niente. Il carcere è il luogo dove viene repressa la libertà e, allo stesso tempo, un luogo che serve per garantire la sicurezza fuori. Se la società non ha una cultura dell’accoglienza e un’attenzione alle fasce deboli, se non è capace della cultura del perdono, è più facile che prevalgano sentimenti di condanna e di emarginazione. Il carcere da molti è visto come il luogo della repressione, ma come ci dice Papa Francesco non possiamo negare all’altro il diritto di rialzarsi. La società deve investire anche in fiducia. Non possiamo stare sempre a puntare il dito. Una persona che non si sente amata e accolta rischia di più di commettere altri reati, una volta fuori.
Ottobre è stato il mese della giustizia riparativa…
Sì, per tutto il mese ogni Istituto penale minorile ha organizzato una sua giornata dedicata alla giustizia riparativa, con incontri in presenza o anche on line, ai quali si sono potuti collegare anche esperti e scuole.
La Chiesa come traduce concretamente l’attenzione costante di Papa Francesco verso il mondo carcerario?
I cappellani, gli operatori pastorali, le consacrate, i diaconi, i volontari costituiscono un esercito di persone che entrano nel carcere come battezzati a nome dei vescovi e della Chiesa, ma sono molto presenti anche fuori investendo nell’accoglienza e in luoghi di recupero degli ex detenuti. La Chiesa quindi vive un’attenzione particolare verso queste fasce così emarginate di popolazione. Certo, non ci possiamo sostituire allo Stato, anche se possiamo affrontare le emergenze e dare vicinanza.
Vuole lanciare un appello?
Impegniamoci tutti attivamente affinché le nostre carceri diventino dei luoghi di speranza, di rinascita e di riscatto.
Se il bene (o il male) sono dalla parte sbagliata
Sono perfettamente consapevole di avventurarmi in un campo a dir poco minato. Ma penso anche che il nostro giornale non debba aver paura delle critiche dei benpensanti o, di come si dice oggi, del “politicamente corretto”. Viviamo in un mondo strano in cui, per difendersi dai totalitarismi del passato, spesso si finisce per crearne di nuovi e di non meno intolleranti. E per combattere (giustamente) i fondamentalismi si rischia di divenire integralisti a propria volta, sposando una visione del mondo e della vita che si potrebbe definire “manichea” perché distingue nettamente il bene dal male, la verità dall’errore, senza ammettere sfumature e semplificando pericolosamente la complessità del reale, finendo con l’instaurare di fatto nuove ideologie. Si badi che la Chiesa ha sempre considerato il manicheismo un’eresia e che la parola eretico indica non tanto chi sostiene una falsità, ma chi prende solo una parte della verità e la esaspera sino a deformarla, sino a farne una caricatura di sé stessa. Del resto è probabilmente proprio dell’essere umano cercare di mettere ordine nel disordine con una narrazione rassicurante della storia, che divida tout court i buoni dai cattivi, i cowboy dagli indiani, le guardie dai ladri, salvo poi – magari a distanza di secoli – dover chiedere scusa e riconoscere che le cose in realtà non stavano esattamente così.
Tutto questo preambolo, per arrivare a dire che l’esecrabile, ingiustificabile, odioso terrorismo di Hamas ha trovato, nella sua folle e cieca violenza, terreno fertile in anni e anni di discriminazioni e limitazioni che il popolo palestinese ha dovuto subire, trovandosi ospite e prigioniero nella propria stessa terra. Non si tratta qui di una guerra di religione o di una questione di antisemitismo, ma di una problematica di natura meramente geopolitica che si vorrebbe però ammantare (e pericolosamente mistificare) di altri significati, rischiando di gettare benzina su un fuoco, quello mediorientale, che potrebbe essere solo la miccia di una pericolosissima polveriera. Lo Stato di Israele non può essere identificato con il popolo di Israele o con l’ebraismo nel loro insieme. E se noi non esprimeremo mai abbastanza la nostra vicinanza e il nostro affetto a questo popolo, ricordando quanto ha subito nei secoli sino all’orrore dell’olocausto (questo sì davvero, male assoluto), ora non possiamo disconoscere le responsabilità dello Stato di Israele nei confronti del popolo palestinese e delle miserande condizioni di vita cui questo è stato troppo a lungo relegato.
Ma per dire come noi oggi facciamo davvero tanta fatica ad ammettere che a volte il bene e il male si manifestano anche dalla parte “sbagliata”, dove non vorremmo che ci fossero, perché questo mette in crisi la nostra narrativa del mondo, potremmo fare anche un esempio al contrario, quello del film, appena uscito nelle sale cinematografiche, Comandante. Pierfrancesco Favino vi interpreta la parte di Salvatore Todaro (1908–1942), comandante della Regia Marina fascista durante la seconda guerra mondiale. Con il suo sommergibile affondò numerose navi nemiche, ma poi si prodigò sempre per salvarne i naufraghi, in nome di una “legge del mare”, di una “italianità” o più semplicemente di una “umanità” che per lui venivano prima di ogni altra appartenenza ideologica o militanza politica. Sì, Todaro era indubbiamente dalla parte sbagliata, ma questo non gli impedì di compiere atti eroici nel bene, tanto da essere sprezzantemente definito dai nazisti “buon samaritano del mare”.
Il film, come era da aspettarsi, sta facendo discutere. Ma intanto è consolante e dà speranza scoprire che luci di bene ci sono state, nelle ore più buie della storia, anche dalla parte sbagliata.
Sono gli uomini a fare le guerre
La guerra in Ucraina così come l’attacco di Hamas in Israele e la ritorsione ebraica a Gaza fanno toccare con mano, ancora una volta, che sono gli uomini – cioè, proprio i maschi – che fanno le guerre. Tra i combattenti, dell’uno e dell’altro fronte, non si scorgono donne: nelle trincee ucraine si vedono volti emaciati di uomini, giovani e non più giovani; i terroristi di Hamas, responsabili dell’attacco del 7 ottobre, a quanto risulta, “erano” tutti uomini; le truppe di invasione israeliane sembrano costituite in maniera preponderante (se non esclusiva) da uomini. Se poi andiamo indietro nel tempo, gli attentati delle Torri gemelle e quelli che hanno insanguinato l’Europa negli anni successivi (da “Charlie Hebdo” al Bataclan) hanno visto in azione sempre uomini. Appare con evidenza, quindi, che non sono le donne ad imbracciare le armi e non sono loro in prima linea: in questo caso, la forza fisica – con buona pace di chi ritiene che essere uomo e donna sia solo una scelta personale – fa la differenza.
Uomini sono anche – restando al duplice scenario citato all’inizio – i principali “attori” di queste immani tragedie: Putin e Zelensky, nel primo caso, Sinwar e Netanyahu, nel secondo. Uomini sono anche a capo di Armenia e Azerbaijan, dove serpeggia il conflitto per l’enclave del Nagorno-Karabakh (ormai “assorbita” dagli azeri); uomini sono anche i capi delle guerre civili nel Sudan e in Libia… e così via. Ovunque ci siano guerre ci sono uomini in combattimento e uomini al comando.
Tutto ciò non significa che le donne non approvino la guerra o che siano necessariamente tutte “per la pace”. Molte donne sono coinvolte attivamente nei conflitti e, pur non trovandosi in trincea, ricoprono ruoli logisitici, di cura, di informazione o disinformazione… Altre sostengono i combattenti e le ragioni della guerra in altre forme meno appariscenti, ma non meno letali. Sicuramente le donne fanno le spese delle guerre e ne subiscono gli effetti, come i bambini e gli anziani.
Se ci fossero più donne al comando, le cose andrebbero diversamente? Non è facile dirlo: nei casi citati non se ne ha l’evidenza, dal momento che vi sono solo “uomini” al potere. Uno dei pochi casi di una donna al comando, nel secolo scorso, è quello del premier britannico Margaret Thatcher, che nel 1982 non ebbe molti tentennamenti quando si trattò di intervenire militarmente contro l’Argentina per riconquistare le Isole Falkland. Tuttavia, una maggiore presenza delle donne nelle stanze dei bottoni è un’opzione da provare e senza dubbio da promuovere. Su questo, eccettuata l’Europa, non sembra però che ci siano significativi passi in avanti a livello mondiale. A cominciare dagli Stati Uniti (che fine ha fatto Kamala Harris?) fino alla Cina (nelle solide mani di Xi Jinping). La tanto criticata Chiesa cattolica la questione del ruolo della donna, per lo meno, se la pone, come testimonia il Sinodo universale e il percorso sinodale della Chiesa italiana.
Un’ultima – e amara – considerazione riguarda il progressivo sdoganamento del ricorso alla violenza fisica e alla guerra come strumenti di risoluzione delle tensioni tra Stati (ma anche tra persone, nelle nostre società sempre più incattivite) anche nella nostra Europa (Ucraina docet!). Forse un segno della crescente difficoltà di dialogo che il nostro tempo soffre e che trova nella violenza l’ultimo e disperato tentativo per “entrare in relazione” con gli altri: una dinamica, quella che sostituisce alle parole le armi, tipica delle epoche di crisi e di passaggio.
Urge, dunque, a livello mondiale una nuova cultura della donna, perché possa assumere più agevolmente ruoli di guida. Ma anche una nuova visione dell’uomo, che si liberi della convinzione che la violenza è uno strumento “legittimo” per affermare la propria identità. Se per “patriarcato” si intende questo, allora è bene andare oltre.
Nuovo abito
Ed ecco il nuovo abito del nostro giornale. Ve lo abbiamo anticipato le scorse settimane, oggi lo adottiamo effettivamente. Vi piace? Credo proprio di sì. Fateci comunque sapere, mandateci qualche commento: ve ne saremo grati.
Si tratta di un’altra svolta storica della nostra testata che ha come tradizione proprio il cambiamento, il restare al passo con i tempi. Pur ancorata alla tradizione.
Un grande studioso dei mass media scriveva che “il mezzo è il messaggio”. Anche l’espressione grafica quindi lo è già, prima ancora dei contenuti. Insomma, la nuova impaginazione è innanzitutto il messaggio che Il Nuovo Torrazzo è sempre Nuovo!
Ma vorrei anche ricordare che ricorre in questi giorni il 60° anniversario del decreto conciliare Inter Mirifica (4 dicembre 1963) sulle comunicazioni.
“Tra le meravigliose invenzioni tecniche che l’ingegno umano è riuscito, con l’aiuto di Dio, a trarre dal creato – vi leggiamo proprio all’inizio – occupano un posto di rilievo quegli strumenti che sono in grado di raggiungere e influenzare non solo i singoli, ma le stesse masse e l’intera umanità. Rientrano in tale categoria la stampa, il cinema, la radio, la televisione e simili. Possono essere chiamati: strumenti di comunicazione sociale.”
E, di seguito, esorta: “Al fine di formare i lettori a un genuino spirito cristiano, si promuova e si sostenga una stampa autenticamente cattolica, tale cioè che venga pubblicata con lo scopo di formare, favorire e promuovere opinioni pubbliche conformi alla dottrina e alla morale cattolica. Infine si richiamino i fedeli alla necessità di leggere e di diffondere la stampa cattolica, allo scopo di poter giudicare cristianamente ogni avvenimento.” È questo il taglio del nostro giornale, un giornale cittadino che racconta tutti gli avvenimenti del territorio (ce ne date atto!), visti dal punto di vista cristiano.
E siccome si avvicina la campagna abbonamenti 2024, prendo l’occasione di questo bellissimo rinnovamento grafico e comunicativo del nostro settimanale per promuoverlo, per chiedere ai nostri lettori non solo di rinnovarne l’abbonamento, ma di consigliarlo anche ai propri amici o conoscenti, anzi di omaggiarlo loro come bellissimo regalo di Natale, un regalo che li accompagnerà per l’intero anno. Leggiamo e diffondiamo il giornale dei cremaschi! Grazie.
Inverno demografico. De Palo: “Un tour in 5 città per sensibilizzare il territorio a vincere tutti insieme la battaglia per la natalità”
“La continua diminuzione del tasso di natalità, come certificato dall’Istat a fine ottobre, conferma che, senza un obiettivo chiaro, non riusciremo a vincere la battaglia della denatalità”. Non ha dubbi Gigi De Palo, presidente della Fondazione per la natalità, della necessità di correre presto ai ripari di fronte a un inverno demografico che non sembra avere fine in Italia, ma fissando, innanzitutto, l’obiettivo che si vuole raggiungere. “Non lo abbiamo stabilito noi – dice al Sir -, ma è quello che ci suggerisce l’Istat: 500mila nuovi nati entro il 2033”. Secondo il rapporto “Natalità e fecondità della popolazione residente – Anno 2022” dell’Istat, l’anno scorso le nascite sono scese a 393mila, registrando un calo dell’1,7% sul 2021, ma non solo: secondo i primi dati provvisori riferiti a gennaio-giugno 2023 le nascite sono circa 3.500 in meno rispetto allo stesso periodo del 2022. Di fronte a questo panorama poco confortante De Palo annuncia “un tour della natalità che ci vedrà protagonisti di 5 eventi sul territorio, proprio per sensibilizzare anche a livello locale rispetto a questa sfida epocale che ci attende. La prima tappa sarà Venezia, poi Bologna, Milano, Palermo e Napoli”.
(Foto Siciliani – Gennari/SIR)
I dati diffusi a fine ottobre preoccupano?
Purtroppo, sono semplicemente i dati attesi: fino a quando non ci sarà in Italia una politica impattante sulle nascite non possiamo aspettarci il miracolo, la demografia è matematica. Il grosso problema è che i dati definitivi del 2023 saranno ancora peggiori. Fino a quando non ci daremo un obiettivo numerico raggiungibile e verificabile sul tema della natalità, navigheremo a vista. Se non ci diamo un obiettivo perderemo sempre la partita, se invece ci diamo un target lavoreremo per raggiungerlo. L’obiettivo di 500mila nuovi nati entro il 2033 lo ha dato l’Istat per evitare che crolli tutto il sistema-Paese (Pil, pensioni, sanità, welfare). L’Istat reputa ancora sostenibile, anche se per poco, questo obiettivo, a patto che si creino le premesse politiche affinché si raggiunga questo obiettivo. In Italia, invece, non ci diamo un obiettivo nella lotta alla denatalità, ne parliamo in modo astratto, si adottano anche misure buone, ma se non sono finalizzate al raggiungimento di un obiettivo risultano utili nel breve periodo ma non impattanti nel lungo periodo. E a noi servono proprio politiche impattanti nel lungo periodo.
Dobbiamo trasformare il tema natalità nella partita più importante dell’Italia, è come una finale al mondiale, in cui tutti tifiamo per l’Italia.
Invece non mi sembra che siamo concentrati sulla finale, ma pur avendo già la data certa in cui giocheremo, ci perdiamo in amichevoli o in partite di piccolo cabotaggio. Si fanno tante proposte, ma – ribadisco – solo se ci poniamo un obiettivo si faranno politiche per arrivare a quell’obiettivo. Quindi la Fondazione per la natalità insiste affinché ci sia un obiettivo. Questo è il punto fondamentale”.
Nel nostro Paese la lotta alla denatalità è resa più difficile dall’instabilità politica?
In Italia i governi non durano molto, c’è indubbiamente questa criticità, mentre la questione della natalità sarà una sfida molto più lunga, è una partita che ci giocheremo nei prossimi 20/30 anni. In un periodo così lungo si alterneranno tanti governi.
Io propongo di fare squadra tutti insieme già adesso: l’obiettivo sia di Paese, che coinvolga i partiti di destra, di sinistra, di centro. La natalità, infatti, deve essere una priorità per tutti.
La fatica che stiamo facendo in questi anni, ed è un processo lungo, è far passare il concetto che la natalità non ha un colore politico, riguarda tutti, Governo e opposizione. La natalità è la finale mondiale che ci dobbiamo giocare nei prossimi anni, usando l’esempio di prima, e la fatica sarà mettere tutti insieme. Oggi governa il Centrodestra, domani ci sarà un altro governo, il problema resta, per questo è importante che politiche di lungo periodo vengano prese a cuore da tutti i partiti, siano la priorità di tutti i partiti, siano nei programmi di tutti i partiti.
Dunque, tutti sono chiamati a fare la loro parte?
Esatto e non è una questione solo a livello centrale, ma una partita che si gioca anche nelle regioni e nei comuni ed è per questo che noi lanciamo il tour, che toccherà Venezia, Bologna, Milano, Palermo, Napoli. Le Regioni dove si trovano queste città alcune sono di Centrodestra e altre di Centrosinistra, magari i sindaci appartengono ad altri partiti. Cerchiamo di creare alleanze a livello territoriale. Il primo appuntamento sarà il 18 gennaio a Venezia, a febbraio Bologna; poi ci sarà la tappa nazionale a Roma con gli Stati generali, dall’8 al 10 maggio; a Milano dovrebbe essere prima dell’estate, a ottobre Palermo, a fine dell’anno a Napoli. Negli eventi coinvolgeremo le istituzioni, presidente della Regione e sindaco, leggeremo i dati del territorio con il demografo Alessandro Rosina e cercheremo di ascoltare gli stakeholder sul territorio che possono offrire delle chiavi di lettura: sindacati, rappresentanti di Confindustria, cantanti, attori, saranno degli Stati generali a livello locale, anche se in piccolo, non dimentichiamo, infatti, che la Fondazione per la natalità si basa sul volontariato. Anche sul territorio occorre creare una rete di sindaci e amministratori locali per la natalità, che poi arrivino a maggio sul palco dell’Auditorium della Conciliazione, a Roma, a firmare un documento per un impegno sempre maggiore a favore della natalità. Gli Stati generali a livello nazionale servono per far diventare popolare il tema della natalità, con gli appuntamenti in giro per l’Italia vogliano creare a livello comunale e locale un’attenzione grande su questi temi, bisogna essere capillari e arrivare a tutti.
È necessario uno sforzo corale per arrivare all’obiettivo “500mila nati entro il 2033”: ma come si raggiunge?
Attraverso un cambio di mentalità e con politiche impattanti. Uno dei problemi è la precarietà.
Non viene spontaneo oggi fare figli perché è la seconda causa di povertà in Italia.
Bisogna creare condizioni che diano certezze ai giovani, solo così potranno pensare di costruire una famiglia. Occorre agevolare l’accesso alla prima casa, cambiare il sistema fiscale italiano, valorizzando il numero dei figli e non solo il reddito, rafforzare l’assegno unico aggiungendo ogni anno risorse, per evitare che resti solo una misura di contrasto alla povertà delle famiglie e trasformandolo in un investimento per il futuro in termini di rilancio della natalità. Queste sono le fondamenta determinanti. Poi si può pensare ai servizi, agli asili nido, ai congedi. Serve anche equiparare le tutele delle donne in gravidanza con partita Iva a quelle che hanno le donne incinte con contratti a tempo indeterminato. È importante anche uscire dalle dinamiche ideologiche. Le Regioni e i comuni devono lavorare sull’implementazione dei servizi locali e sulle loro tariffe, creando città a misura di famiglia; le aziende devono aiutare l’armonizzazione tra lavoro e famiglia valorizzando il lavoro femminile; i media e il mondo dello spettacolo devono fare una narrazione nuova, mostrando come la nascita di un figlio non è un problema, ma una risorsa. Iniziamo a fare questo per due o tre anni e i risultati si vedranno. Se pensiamo di ottenere risultati in un anno falliremo miseramente. Sono politiche che hanno bisogno di tempo, per questo è necessario un patto tra destra e sinistra, partiti di maggioranza e opposizione, cambiano i nomi, i governi, ma il tema della natalità resta centrale per il futuro. Altrimenti, non perdiamo solo la finale del mondiale, ma tutto il Paese.
L’inflazione continua a incidere pesantemente sui consumi
L’Istat ci fa sapere che l’inflazione continua a incidere pesantemente sui consumi delle famiglie. A settembre le vendite al dettaglio sono diminuite rispetto ad agosto dello 0,3% se si considera il valore, dello 0,6% se invece si considera il volume degli acquisti. Nel confronto con il 2022 la spesa è aumentata dell’1,3% mentre le quantità acquistate in volume sono scese del 4,4%. Si spende di più per comprare di meno, insomma. Cambiano anche le modalità di acquisto: vanno sempre forte i discount, mentre per la prima volta dal giugno 2022 scende il commercio elettronico: -1,6%, un calo superiore a quello dei piccoli negozi (-1,2%). E aumenta dell’1,6% il ricorso al commercio ambulante. Un altro indicatore significativo – la rinegoziazione dei mutui – registra un boom nei primi nove mesi di quest’anno, con un ammontare di 17,4 miliardi contro i 5,1 dell’analogo periodo del 2022, secondo gli ultimi dati dell’Abi.
Le rilevazioni dell’Istat sui consumi indicano una tendenza coerente con quanto segnalato nei giorni scorsi dall’Ocse (l’organizzazione dei Paesi più sviluppati) sui redditi reali delle famiglie:
se in tutta l’area si riscontra un aumento medio dello 0,5%, in Italia il reddito reale è diminuito dello 0,3%, unico dato negativo tra gli Stati membri del G7. Così pure per il Prodotto interno lordo reale per abitante, cresciuto negli altri sette grandi e sceso dello 0,3% nel nostro Paese.
Come si conciliano questi numeri con quelli che riguardano l’occupazione? A settembre, sempre secondo le rilevazioni Istat, essa è cresciuta di 43 mila unità (+0,2%). Rispetto al settembre 2022 l’aumento è stato superiore al mezzo milione, 512mila occupati in più (+2,2%). Per spiegare questa contraddizione – reddito e Pil pro capite in calo, occupati in crescita – fermo restando che si tratta di fenomeni dalle cause complesse, bisogna prendere in considerazione almeno due fattori: il numero di ore effettivamente lavorate e il livello delle retribuzioni. Nel secondo trimestre di quest’anno, per esempio, a fronte di un aumento di 129 mila occupati sul primo trimestre, l’input di lavoro (che viene misurato in ore lavorate) è diminuito di mezzo punto percentuale. Quanto alle retribuzioni, il recente dato dell’Ocse sui redditi reali conferma un problema ormai cronico del nostro Paese. Secondo i calcoli del sito Openpolis (ancora su dati Ocse e sulla base dei prezzi del 2020), negli ultimi trent’anni i salari reali medi degli italiani sono diminuiti del 3,6%, mentre in Spagna sono aumentati del 6%, in Francia del 31% e in Germania del 34%. Torna ancora una volta il tema del lavoro povero perché il concetto statistico di “occupato” può voler dire molte cose e la politica dovrebbe tenerne conto nel valutare la situazione reale di persone e famiglie.
Qualche segnale relativamente positivo, soprattutto in prospettiva e a livello globale, arriva dal versante dell’inflazione. In Italia, secondo le stime preliminari di ottobre, il tasso è sceso dello 0,1% su base mensile e nel confronto con l’anno precedente è passato addirittura dal 5,3% all’1,8%. L’Istat ha messo in guardia da facili entusiasmi e ha parlato di “effetto statistico” perché il paragone viene effettuato con l’ottobre del 2022 quando ci fu un’impennata dei beni energetici, oggi decisamente in ribasso rispetto ad allora. Un moderato rallentamento della crescita dei prezzi è rilevabile, anche se per sentirne gli effetti ci vorrà tempo e difficilmente si tornerà ai livelli di prima. Resta comunque intatta nella sua gravità e urgenza la questione epocale di un lavoro che anche quando c’è non basta per assicurare una vita dignitosa.
The call for peace echoes in Brussels. EU bishops: “We are committed to serving the cause of justice”
(From Brussels). For the European Union and those serving in its institutions, that they may be guided and inspired by the example of the founding fathers of the European project. For peace in the world, so that the spiral of hatred that is causing so many deaths, especially in Ukraine and the Holy Land, may come to an end. For the victims of violence, especially children, women and the elderly. At a time when the ongoing conflicts show no sign of diminishing and are even escalating, the bishops delegates of the Bishops’ Conferences of the European Union – gathered in Brussels for the COMECE Autumn Plenary Assembly – convened in the church of Notre-Dame des Victoires au Sablon, in the heart of Europe.
“We believe that God guides the course of history,” said Msgr. Mariano Crociata, President of COMECE, in his homily, “but we also believe that he does so by asking us to be willing to be guided by the light of His wisdom and love.”
The Plenary Assembly opened with an overview of the most critical conflicts in Europe and the Middle East and their impact on European societies. Almost two years have passed since the outbreak of Russia’s aggression against Ukraine and, unfortunately, the war still has no end in sight. This was followed on October 7 by the terrorist attack by Hamas against Israel, triggering a conflict that threatens the stability of the entire region. During the three-day meeting, the bishops will have the opportunity to dialogue with Archbishop Schevchuk, head of the Ukrainian Greek Catholic Church, and listen to the testimony of Patriarch Pizzaballa. “It will be an opportunity to express our full solidarity with the suffering of the faithful,” said Mgr Crociata, “and to reiterate our rejection of terrorism as a method of political struggle, our condemnation of all forms of violation of international law and respect for borders and for the dignity and integrity of every nation. The bishops are particularly concerned about “the victims of violence, especially civilians, children, women and the elderly, the disruption of the lives of so many families, the immense suffering of the wounded and the displaced.”
“As far as it is in our power,” the EU Bishops affirm, “we are determined to support the cause of justice and the rights of individuals and local and national communities.
The first day of the Plenary Assembly was attended by the Vice-President of the European Parliament, Othmar Karas, who engaged in an in-depth dialogue with the bishops on international geopolitical issues, the crisis in the Holy Land and its repercussions in Europe in terms of tensions and polarised positions. In his opening address, Monsignor Crociata expressed the concerns of the EU Bishops. He mentioned the problem of security, which “reappears at regular intervals in our countries, with alarming episodes of terrorism.” He also mentioned the “rise of anti-Semitism that resurfaces especially in these circumstances, as well as the polarised attitudes in support of one party or the other, denounced by the street protests, while losing sight of the complexity of the situations and the suffering of all those involved, not just some of them.” “This is also why,” continued the COMECE President, “we cannot remain insensitive to the importance and impact of the positions adopted by the EU on these conflicts, as well as on so many other situations that are unfolding before our eyes.”
The European elections, which will be held across the EU 27 from 6-9 June next year, are also at the centre of the discussions. “This is a time when the great challenges that lie ahead of us, can be transformed into opportunities for the European Union to emerge with a stronger and more successful unity in relation to today’s expectations”, said Monsignor Crociata. Regrettably, there are indications that things are not moving in this direction.” The situation so far is not positive.
“We expect more from the EU than what we have seen recently – the President of COMECE noted with bitterness – In this respect, next year’s elections are a crucial deadline.”
European citizens deserve a Parliament that is “renewed and regenerated, also in ethical terms, after the events that have tarnished its image. We feel responsible for making our fellow Bishops and our faithful feel the importance of their participation. Beyond the substance, which is certainly important, I believe that there are few like us – by which I refer to bishops and the Church – who have the opportunity to promote the general interest of a Europe that is united not for the benefit of one person or one party, but for the common good of all our peoples and countries.”
Il grido della pace risuona anche a Bruxelles. Vescovi Ue: “Ci impegniamo a sostenere la causa della giustizia”
(da Bruxelles) Per l’Unione Europea e per chi lavora nelle sue istituzioni affinché siano guidati e ispirati dall’esempio dei Padri Fondatori del progetto europeo. Per la pace nel mondo perchè si ponga fine al vortice di odio che in particolare in Ucraina e in Terra Santa sta provocando incalcolabili perdite di vite umane. Per “le vittime della violenza”, in particolare per i bambini, le donne, gli anziani. In un momento in cui i conflitti non lasciano intravedere prospettive e, anzi, sono in una fase di escalation, i vescovi delegati delle Conferenze episcopali dell’Unione Europea – riuniti a Bruxelles per l’assemblea plenaria di autunno della Comece – si sono dati appuntamento nella Chiesa Notre-Dame des Victoires au Sablon nel cuore dell’Europa. “Noi crediamo che Dio conduce le sorti della storia – ha detto nell’omelia mons. Mariano Crociata, presidente della Comece -, ma siamo altrettanto convinti che Egli lo fa chiedendo a noi la disponibilità ad agire lasciandoci guidare dalla luce della sua sapienza e del suo amore”.
Messa per l’Europa, omelia di mons. Crociata (Foto sir)
L’assemblea plenaria si è aperta facendo il punto sulle situazioni più calde in Europa e in Medio Oriente e sull’impatto che stanno avendo nelle società europee. Sono trascorsi poco meno di due anni dall’avvio dell’aggressione russa contro l’Ucraina e la guerra non lascia purtroppo ancora intravedere prospettive. Ad essa lo scorso 7 ottobre si è aggiunto l’attacco terroristico di Hamas contro Israele, a cui è seguito un conflitto che sta mettendo a rischio l’equilibrio dell’intera regione. I vescovi avranno modo di dialogare in questi tre giorni di lavoro con l’arcivescovo maggiore Schevchuk, capo della Chiesa greco-cattolica ucraina, e di ascoltare la testimonianza del patriarca Pizzaballa. “Sarà l’occasione – spiega Crociata – per dire la nostra piena solidarietà alla sofferenza dei loro fedeli, ma anche per ribadire il nostro rifiuto del terrorismo come metodo di lotta politica, la nostra condanna nei confronti di ogni forma di trasgressione del diritto internazionale e del rispetto dei confini e della dignità e intangibilità di ogni nazione”. Ma ai vescovi stanno a cuore soprattutto “le vittime della violenza, particolarmente i civili, i bambini, le donne, gli anziani, per lo sconvolgimento della vita di tante famiglie, per le sofferenze immani di feriti e di sfollati”. “Per quanto è in nostro potere – assicurano i vescovi Ue -, ci impegniamo a sostenere la causa della giustizia e dei diritti di singoli e di comunità locali e nazionali”.
Othmar Karas alla Assemblea plenaria della Comece (Foto A. Di Maio)
Nel primo giorno di plenaria, è intervenuto anche il vice-presidente del Parlamento Europeo Othmar Karas, che ha avuto con i vescovi un confronto a tutto campo anche sui temi geopolitici internazionali, la crisi in Terra Santa e le ripercussioni che sta avendo in Europa in termini di tensioni e polarizzazioni. A questo proposito, nel suo discorso di apertura mons. Crociata ha dato voce alle preoccupazioni dei vescovi Ue. Ha parlato del problema sicurezza che “periodicamente si ripropone nei nostri Paesi, con inquietanti episodi di terrorismo”; ma anche dei “rigurgiti di antisemitismo che si ripresentano specialmente in queste circostanze, oltre che la polarizzazione verso l’una o l’altra causa che le manifestazioni di piazza denunciano, perdendo di vista la complessità delle situazioni e la considerazione della sofferenza di tutti quelli che la patiscono e non solo di una parte di essi”. “Anche per questo – ha proseguito il presidente della Comece – non possiamo rimanere insensibili di fronte al significato e agli effetti delle posizioni che l’UE assume sui conflitti, insieme a tante altre situazioni che si dispiegano sotto i nostri occhi”.
Al centro del dibattito, ci sono anche le elezioni europee che si terranno il prossimo anno nei 27 paesi membri dell’Unione europea dal 6 al 9 giugno. “Questo è un tempo in cui le grandi sfide che si profilano – ha detto Crociata – possono diventare occasione perché l’Unione Europea emerga con una unità più forte ed efficace in rapporto alle attese di oggi. Ma purtroppo i segnali non sembrano andare in tale direzione”. Il bilancio ad oggi non è positivo. “Dall’Ue – constata con amarezza il presidente della Comece – ci attendiamo di più di quanto abbiamo dovuto constatare negli ultimi tempi. In questo senso avvertiamo fin da ora che una scadenza cruciale è rappresentata dalla tornata elettorale dell’anno prossimo”. I cittadini europei meritano un Parlamento “rinnovato e rigenerato anche dal punto di vista etico, dopo le vicende che ne hanno offuscato l’immagine. Avvertiamo la responsabilità di far sentire quanto sia importante partecipare e di farlo sentire ai nostri confratelli vescovi e ai nostri fedeli. Al di là dei contenuti, che sono sicuramente importanti, credo che pochi come noi – intendo vescovi e Chiese – hanno la possibilità di promuovere l’interesse generale per una Europa che sia unita non per il vantaggio di qualcuno o di una parte, ma per il bene comune di tutti i nostri popoli e Paesi”.
Israel and Hamas: Caritas Baby Hospital activities continue despite tensions in the West Bank
The Caritas Baby Hospital was due to celebrate the 70th anniversary of its foundation and mission on October 22, but the Hamas terrorist attack on Israel a month ago and the subsequent outbreak of what has been dubbed the ‘Sukkot War’ has caused it to be postponed. And no one knows until when. The Caritas Baby Hospital in Bethlehem (CBH), the only paediatric hospital in the West Bank providing treatment and care to infants and children up to 16 years of age, is severely affected by the conflict and tensions that have now reached critical levels in the Bethlehem area and throughout the West Bank.
West Bank: the figures of violence. The numbers speak for themselves. According to OCHA, the UN Office for Humanitarian Affairs, 150 Palestinians, including 44 children, have been killed by the Israeli military in the West Bank since October 7. Three Israelis have been killed in attacks by Palestinians. The number of Palestinians killed in the West Bank since the outbreak of the war represents more than a third of all Palestinian casualties in the West Bank in 2023 (397). Since October 7, the Israeli military has wounded 2,375 Palestinians, including at least 251 children, while there have been 218 settler attacks with over 60 injured. Nearly half of the incidents involved Israeli forces accompanying or actively supporting the settlers, whose attacks often prevent Palestinians from picking olives and thus deprive them of their livelihood. Also yesterday, 11 Palestinians were wounded in clashes with the Israeli army near Bethlehem.
Emergency care. CBH staff continue to provide health and social services despite the emergency. To date, they explain from the hospital, “the population’s first obstacle is the restriction on freedom of movement. The life of the Palestinian population in the West Bank is governed by a complex administrative system that has been unilaterally put in place by the State of Israel. In the immediate aftermath of the horrific attack carried out by Hamas and Islamic terrorism against the people of Israel
the Israeli government declared a state of war. It imposed surveillance measures on the West Bank, including the town of Bethlehem: a curfew and a ban on travelling outside one’s local authority area.
This also applies to residents of hamlets, many of which are in the Bethlehem district.” The CBH made known that “many businesses and shops, as well as schools, have been closed. These severe restrictions on movement make it very difficult, if not impossible, to reach the Caritas Baby Hospital which, with its 82 beds, intensive care unit and polyclinic, is a point of reference for families from dozens of villages in the region.”
Settler aggression. Israeli settlers, who “have intensified their attacks against Palestinians”, are also harming the Palestinian population, sources from the children’s hospital denounced. Since October 7, settlers have killed more than 100 Palestinians, mostly in punitive actions against civilians living in the villages. Attacks are also increasing in the hamlets around Bethlehem.”
“This creates a widespread state of fear and anxiety that prevents people from leaving their homes, even when it comes to protecting the health of their children.
Growing poverty. In addition to the restrictions on freedom of movement, there are also economic and material difficulties. The West Bank is currently “sealed off”. Tourists and pilgrims, who provide most of the income in Bethlehem, where more than 90 per cent of jobs are in the tourism industry, left immediately after the war broke out. In addition, the CBH adds, “all transport to and from the West Bank is blocked, as is transport between towns. As a result, access to goods of all kinds, including locally produced goods, is increasingly difficult. The psychological burden of this deprivation is huge.”
The commitment of the Caritas Baby Hospital. The doctors and staff of the Children’s Hospital (230 healthcare staff, ed.’s note) are not exempt from this serious crisis situation. They are confronted with “the difficulty of not being allowed to travel outside the municipality in which they live, and this is preventing some of them from reaching their place of work.” However, according to the CBH, the medical and nursing staff who do manage to reach their workplaces are always available to help every patient who arrives at the hospital. Admissions fluctuate, from days with high numbers to days with around 20% of normal capacity. Some children, however, are in urgent need of treatment: “Children with chronic illnesses,” the hospital says, “who require continuous and scheduled treatment, as well as those with serious clinical conditions who therefore need to be cared for with appropriate equipment and medication. In this scenario, the hospital staff have found some “effective and professional” ways of being at the children’s side despite everything. In fact, “a free 24-hour helpline has been set up for parents to contact their doctors directly about their children’s health or to get psychological support; the hospital’s social services contact all the families of children with chronic illnesses to guarantee them the medicines they need. The delivery of medicines to homes in areas outside Bethlehem is possible thanks to a network of contacts and connections that the Caritas Baby Hospital has developed over time. Hospital staff make home visits in Bethlehem and the surrounding area by ambulance and ambulance cars to visit children in need of expert medical care; stocks of medicines, medical supplies and diesel fuel have been increased so that all wards are always equipped to receive children, both for simple outpatient visits and for critical and intensive care.”
The appeal. Perhaps the only source of hope at the moment is the solidarity of the many benefactors who continue to offer their support because, as the hospital points out, “despite everything, international bank transfers are functioning normally, as is the payment of salaries to the staff”. The CBH is therefore appealing for continued support for the institution, which is run by the Swiss association Kinderhilfe Bethlehem and financed by donations coming mainly from Switzerland, Germany, Italy, Austria and the United Kingdom. In Italy, the association Aiuto Bambini Bethlehem is actively involved in fundraising activities.
Israele e Hamas: la tensione in Cisgiordania non ferma l’opera del Caritas Baby Hospital
Il 22 ottobre scorso avrebbe dovuto festeggiare i suoi primi 70 anni di vita e di missione, ma l’attacco terroristico, un mese fa, di Hamas a Israele e il conseguente scoppio della oramai detta ‘guerra del Sukkot’, ha costretto a rimandare tutto. E non si sa per quanto. Il Caritas Baby Hospital di Betlemme (Cbh), l’unico ospedale pediatrico della Cisgiordania che cura e fornisce assistenza a neonati e bambini fino a 16 anni, sta risentendo in maniera grave della situazione di tensione e di scontro che sta diventando molto critica anche nell’area di Betlemme e in tutta la Cisgiordania.
Cisgiordania: i numeri della violenza. Sono i numeri a descrivere la gravità del momento. Secondo Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, dal 7 ottobre, in Cisgiordania 150 palestinesi, tra cui 44 bambini, sono stati uccisi dalle forze israeliane. Tre israeliani sono stati uccisi in attacchi da parte di palestinesi. Il numero di palestinesi uccisi in Cisgiordania dallo scoppio della guerra rappresenta oltre un terzo di tutte le vittime palestinesi in Cisgiordania nel 2023 (397). Dal 7 ottobre, le forze israeliane hanno ferito 2.375 palestinesi, tra cui almeno 251 bambini, mentre gli attacchi dei coloni sono stati 218 con oltre 60 feriti. In quasi la metà degli incidenti, le forze israeliane hanno accompagnato o sostenuto attivamente i coloni che nei loro attacchi spesso impediscono la raccolta delle olive ai palestinesi, privandoli del relativo guadagno. Ancora ieri 11 palestinesi sono stati feriti in scontri con l’esercito israeliano vicino Betlemme.
Cure in emergenza. Nonostante ciò il personale del Cbh continua a lavorare anche se in emergenza gestendo i servizi sanitari e sociali. Ad oggi, spiegano dall’ospedale, “il primo ostacolo della popolazione è il divieto di movimento. La vita della popolazione palestinese in Cisgiordania si svolge sotto un complesso sistema amministrativo stabilito unilateralmente dallo stato di Israele. Subito dopo l’orribile attentato di Hamas e del terrorismo islamico contro il popolo di Israele,
il governo israeliano ha proclamato lo stato di guerra e imposto sul territorio cisgiordano due misure di controllo che coinvolgono anche Betlemme: il coprifuoco e il divieto a muoversi al di fuori del proprio comune di residenza
e che vale anche per la residenza nelle frazioni, che per la città di Betlemme sono numerose”. Inoltre, aggiungono dal Cbh, “sono state imposte la chiusura di numerose attività commerciali e negozi, come anche delle scuole. Queste forti restrizioni alla libertà di movimento rendono molto difficile, se non impossibile in non pochi casi, raggiungere il Caritas Baby Hospital, che con i suoi 82 posti letto, l’unità di Terapia intensiva e il poliambulatorio, rappresenta un punto di riferimento per le famiglie di decine di comuni della regione”.
(Foto AFP/SIR)
Le aggressioni dei coloni. Altro ostacolo per la popolazione palestinese è rappresentato, denunciano dall’ospedale pediatrico, dai coloni israeliani che “hanno intensificato i loro attacchi contro i palestinesi. Dal 7 ottobre i coloni hanno ucciso oltre 100 palestinesi, quasi sempre nell’ambito di azioni punitive verso la popolazione civile che abita nei villaggi. Anche nelle frazioni di Betlemme le aggressioni si stanno moltiplicando”.
“Tutto questo genera un grande stato di paura e allarme, che induce le persone a non uscire di casa, anche quando si tratta della salute dei propri figli”.
Povertà in aumento. Alle difficoltà di spostamento si aggiungono quelle economiche e materiali. Attualmente la Cisgiordania “è sigillata”. I turisti e pellegrini che rappresentano la maggior parte dell’indotto di Betlemme, dove oltre il 90% del lavoro si svolge in ambito turistico, sono andati via subito dopo lo scoppio della guerra. Inoltre, aggiungono dal Cbh, “tutti i trasporti verso e fuori la Cisgiordania sono bloccati, così come i trasporti tra città e città. Questo comporta una crescente difficoltà nel reperire ogni genere di beni, inclusi quelli prodotti localmente. Il peso psicologico di questo immiserimento è grandissimo”.
(Foto Caritas Baby Hospital)
L’impegno del Cbh. Da questa situazione di grave crisi non sono esclusi i medici e il personale dell’ospedale pediatrico (230 operatori, ndr.) che hanno “la difficoltà di non potersi spostare al di fuori del comune di residenza, e questo impedisce a parte di essi di raggiungere il luogo di lavoro. Tuttavia, – precisano dal Cbh – chi tra personale medico e infermieristico può recarsi a lavoro, è sempre pronto a prestare il proprio servizio a ogni piccolo paziente che si presenta alle porte del nosocomio. L’affluenza è altalenante, da giorni di forte afflusso, si passa a giornate in cui il servizio si attesta attorno al 20% delle capacità ordinarie dell’ospedale”. Ci sono però bambine e bambini che hanno assoluto bisogno di cure: “Sono – dicono dall’ospedale – quelli con malattie croniche che necessitano di terapie continue e programmate, così come quelli che presentano quadri clinici gravi e che vanno perciò seguiti con attrezzature e farmaci adeguati”. In questo scenario, il personale ospedaliero ha trovato alcune modalità “efficaci e professionali” di essere accanto ai bambini, nonostante tutto: “è stata attivata 24 ore su 24 una linea telefonica gratuita per consultare direttamente i medici sulla salute dei propri figli o per avere supporto psicologico; i servizi sociali dell’ospedale stanno contattando tutte le famiglie dei piccoli pazienti cronici per garantirgli i farmaci di cui hanno bisogno. La consegna dei farmaci a domicilio, nelle zone fuori Betlemme è possibile grazie alla rete di contatti e collegamenti che il Caritas Baby Hospital ha costruito nel tempo; il personale dell’ospedale esegue a Betlemme, e nelle strettissime vicinanze, visite a domicilio con auto-ambulanze e ambulanze, per raggiungere i bambini che hanno bisogno di un supporto medico specialistico; si è provveduto a potenziare le riserve di medicinali, di presidi medici e di gasolio, in modo che tutti i reparti siano sempre pronti ad accogliere i bambini, sia per visite ambulatoriali semplici, che per casi critici e di terapia intensiva”.
(Foto Caritas Baby hospital)
L’appello. Una fonte di speranza, forse l’unica al momento, è la solidarietà di tanti benefattori che continuano a far arrivare il loro aiuto, perché, sottolineano dal nosocomio, “nonostante tutto, i trasferimenti bancari internazionali funzionano normalmente, così come l’accredito degli stipendi al personale”. Da qui l’appello del Cbh a continuare a dare sostegno alla struttura che è gestita dall’associazione svizzera Kinderhilfe Bethlehem e finanziata con donazioni che giungono in particolare da Svizzera, Germania, Italia, Austria e Gran Bretagna. In Italia è molto attiva, nella raccolta fondi, l’associazione Aiuto Bambini Betlemme.
60 anni di Inter Mirifica: l’IA mette in discussione il futuro stesso della nostra esistenza umana
Rileggendo il documento Inter Mirifica, di cui ricorre il 60° anniversario, emerge come la Chiesa del Concilio abbia compreso l’importanza fondamentale dei media nel plasmare gli immaginari e le coscienze delle persone, nonché la loro capacità di raggiungere masse enormi e influenzare i comportamenti. Da qui la preoccupazione per l’uso appropriato da parte della Chiesa, ma anche da parte degli utenti, dei genitori, dei giovani, degli autori e delle autorità civili. Ne deriva la necessità di una formazione a tutti i livelli, e infine, per mantenere viva l’importanza della comunicazione sociale, l’istituzione della Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali. Era il 4 dicembre 1963, ed era un mondo davvero diverso da quello attuale.
Se ci proiettiamo nel contesto attuale, dobbiamo renderci conto che non viviamo più in un’era di cristianità; abbiamo attraversato una trasformazione da una società di massa mediatica a una società bio-mediatica. La tecnologia digitale, anche se utilizzata attraverso dispositivi, è un sistema complesso che permea ogni aspetto della nostra vita. I sistemi di Intelligenza Artificiale (IA) stanno acquisendo funzioni autonome sorprendenti, come evidenziato da ChatGPT e altre intelligenze artificiali simili. In particolare, la tecnologia dell’IA si configura come una meta-tecnologia, un motore invisibile che dà forma a tutte le nostre attività e ridefinisce profondamente il nostro ruolo come esseri umani.
Da questa prospettiva, l’Inter Mirifica ha poco da dire nel contesto attuale, poiché non è sufficiente conoscere e utilizzare adeguatamente i dispositivi digitali. Stiamo affrontando il futuro stesso della nostra esistenza umana. La vasta gamma di applicazioni dell’IA è stupefacente, ma la loro potenza affascina e spaventa allo stesso tempo. È quindi essenziale e urgente comprendere in quale direzione vogliamo muoverci, quale società desideriamo creare.
Già la situazione attuale, soprattutto nel mondo dei social media, presenta una contraddizione amara dopo vent’anni. Da un lato, le piattaforme sociali offrono opportunità e servizi che non avevamo mai avuto prima nel lavoro, nell’arte, nell’espressione delle opinioni e nell’intrattenimento. Dall’altro lato, purtroppo, abbiamo constatato che la logica del profitto che le guida promuove fenomeni come la profilazione, che a sua volta alimenta danni collaterali come l’isolamento in “bolle”, processi di radicalizzazione, la perdita della capacità di dialogo e l’incremento di forme di violenza mediata.
Anche a livello cognitivo, ci sono impatti significativi. La prolungata esposizione a tecnologie iper-stimolanti favorisce lo sviluppo di alcune abilità cognitive a discapito di altre. Le nuove generazioni, per esempio, interagiscono con agilità, velocità e destrezza con le interfacce digitali, ma nel contempo perdono la capacità di concentrazione, di lettura prolungata e profonda, nonché di valutazione di situazioni complesse.
Il futuro dell’automazione, grazie a sistemi di IA sempre più evoluti, porterà alla realizzazione di ambienti digitali nelle smart city. Tuttavia, rimangono irrisolti problemi legati al rapporto tra servizi e controllo. Affinché l’intero sistema digitale funzioni ed evolva, è richiesto un controllo continuo e progressivo delle nostre vite, con impatti significativi sulla libertà. Un altro problema non trascurabile è la percezione palpabile che questa rivoluzione non sia accessibile a tutti, almeno finora, e si prevede che maggiori saranno i costi per la realizzazione di questi “paradisi digitali” del futuro, minore sarà il numero di coloro che potranno accedervi. È compito della Chiesa rinnovare l’impegno affinché il futuro sia un bene comune per tutti e non solo per pochi.
Gratteri: criptofonini, bitcoin e dark web i nuovi boss trafficano così
La vecchia coppola è finita in soffitta, a vantaggio di copricapi griffati e abiti sartoriali, confezionati su misura in via Montenapoleone, nella londinese Savile Row o nelle maisons parigine degli Champs-Elysées. E la lupara pure, perché gli strumenti dei nuovi traffici si chiamano super computer e terabyte. I boss 5.0, racconta il neo procuratore della Repubblica di Napoli, Nicola Gratteri, comunicano con criptofonini a prova di intercettazione, spostano con un dito sul tablet montagne di denaro in valute virtuali, assoldano ingegneri informatici e maghi del computer e si muovono nell’ombra di piattaforme nascoste come il dark web. Gratteri, classe 1958, è un uomo all’antica, orgoglioso delle proprie radici piantate nella terra della Locride, e insieme “contemporaneo”, come si definisce, perché si aggiorna continuamente sulla minacciosa espansione dei fenomeni criminali sul pianeta. Da ottobre, dopo una vita trascorsa come magistrato inquirente in Calabria, la sua sfida si chiama Napoli, “la procura più grande d’Europa – snocciola – con 9 aggiunti e 102 sostituti”. Da giorni, ne ascolta le valutazioni: “Non mi fermo mai, neppure mentre mangio. Ricevo uno dopo l’altro i colleghi e ragioniamo sulle priorità da affrontare”. In sedici anni, nel corso di interminabili giornate (“dormo dalle 22 alle 3 del mattino, poi mi sveglio, leggo e scrivo”), insieme all’inseparabile amico giornalista e storico Antonio Nicaso, Gratteri ha sfornato una ventina di libri. Le mafie, argomenta, sono capaci “di trasformare in opportunità di business anche una guerra come il conflitto in Ucraina, la pandemia da Covid- 19 o il piano di ripresa economia del Pnrr”. Ma nel nuovo saggio – “Il grifone”, in uscita per Mondadori in queste ore e di cui quest’intervista offre un’ampia anticipazione – il magistrato si spinge più in là, provando a raccontare le mafie del futuro, anzi ormai del presente, tratteggiando la metamorfosi hi-tech della malapianta, attecchita sul web.
Procuratore, le mafie da oltre un secolo provano a controllare fisicamente i territori in cui operano. Ormai hanno colonizzato anche le praterie virtuali del web?
Le mafie hanno sempre dimostrato di avere una grande capacità di adattamento. Sono riuscite a passare indenni l’ultima fase del regime borbonico, lo stato liberale, il ventennio fascista, la prima e la seconda repubblica. Sono ancora forti e stanno esplorando con successo anche lo spazio cibernetico che deve essere visto come un’estensione del territorio fisico. Hanno iniziato con i social media (da Facebook a Tik-Tok) e stanno dimostrando sempre più interesse a estendere la loro influenza e il loro controllo su nuovi territori e opportunità economiche. Con l’espansione del mondo digitale e l’importanza crescente del web nella vita quotidiana, anche le mafie cercano di sfruttare questo spazio virtuale per scopi illegali. Tra le aree di interesse, ci sono gli attacchi informatici, le frodi online, estorsioni ransomware e altre attività illecite online. Sono attente anche alle dinamiche del dark web, la parte nascosta e non indicizzata del web dove, durante la pandemia, sono prosperate le attività illegali e da alcuni anni utilizzano anche le criptovalute.
Boss e picciotti hanno acquisito competenze informatiche o assoldano hackers che lavorino per loro?
I due ambiti continuano a rimanere separati. Alcune indagini hanno rivelato l’utilizzo di hacker che però non sono rimasti nascosti dietro lo schermo di un computer, ma sono andati a operare in Calabria al fianco di alcuni boss del Crotonese. L’impressione che si coglie è che alcune famiglie di ‘ndrangheta non siano più scarsamente competenti e costrette a ricorrere sempre e comunque a consulenti esterni. Alcuni collaboratori di giustizia hanno raccontato scenari caratterizzati da investimenti su piattaforme clandestine di trading e altre operazioni che in passato non erano mai state ricondotte a organizzazioni mafiose.
Quale, fra le mafie italiane, è quella più operativa sul web?
La ’ndrangheta sembra essere un passo avanti rispetto alle altre mafie nell’ottica della gestione di criptovalute e attività illegali online. La camorra è più coinvolta nei social media, un mondo che viene continuamente esplorato anche da mafiosi, ‘ndranghetisti ed esponenti dei clan del Gargano.
Come operano ‘ndrangheta, camorra, Cosa nostra nel mercato delle criptovalute?
Si tratta di un mercato con lucrose prospettive, se si pensa che nel 2022 il volume delle transazioni illecite ha raggiunto il livello record di 20,6 miliardi di euro. Le mafie operano in due modi. C’è chi utilizza queste valute e chi le estrae attraverso un sofisticato meccanismo di “mining”, che passa dall’uso di computer tecnologicamente avanzati con dispendi energetici rilevanti. C’è uno studio della Fondazione Magna Grecia, che verrà pubblicato a dicembre, che documenta una forte presenza della ‘ndrangheta nell’estrazione di criptovalute in Calabria.
Quali sono i business criminali più praticati dalle mafie nostrane sul dark e sul deep web? Narcotraffico, commercio di armi, truffe, vendita di merce taroccata, furto d’identità, altro ancora?
Nei bazar digitali si vende e si acquista di tutto: è possibile trafficare in droga, armi, vaccini, big data e tante altre cose che fino a poco tempo fa sembravano frutto di fervide immaginazioni. Ma Il dark web serve anche a custodire server per comunicazioni sempre più sofisticate e protette.
Ci sono esempi di nuovi boss già esperti di utilizzo del web?
Ci sono indagini in Calabria e in Lombardia in cui boss di ‘ndrangheta gestiscono attività di “phishing” grazie ad hacker assunti in Romania. E fanno operazioni di riciclaggio con hacker tedeschi che, come si diceva, hanno operato in Calabria, avendo accesso anche a banche europee.
Come si possono attrezzare i singoli Stati per contrastare la minaccia delle mafie del futuro, mimetiche e silenti?
Bisogna evitare che nel mondo ci siano zone franche, territori con legislazioni meno affliggenti. È necessaria una strategia globale, una cooperazione sempre più efficace con continui scambi di informazioni e di intelligence. Altrimenti, sarà sempre più difficile contrastare le mafie, oggi sempre più ibride, a cavallo tra la dimensione analogica e quella digitale.
Piattaforme “blindate” e chat criptate vengono usate per comunicare al sicuro dal rischio di essere intercettati dalle forze dell’ordine…
Già. Ci sono server che garantiscono comunicazioni sempre più sicure e aziende che costruiscono piattaforme e applicazioni per conto delle mafie, come dimostrano i sistemi Encrochat e SkyEcc. C’è motivo di ritenere che oggi le mafie – oltre ad avere al loro servizio pirati informatici, drug designer e hacker – dispongano di ingegneri informatici, che lavorano per evitare che le comunicazioni vengano intercettate dalle forze dell’ordine. Uno dei casi più noti è quello di Vincent Ramos, che in Canada costruiva sistemi per conto del cartello messicano di Sinaloa.
C’è il rischio che le dotazioni di poliziotti e magistrati non siano all’altezza di computer e smartphone usati dai criminali hi tech?
Il rischio c’è, soprattutto se si tiene conto che le forze dell’ordine hanno problemi di organico, oltre che di fondi necessari per affrontare minacce sempre più globali. Cionono-stante, non stanno con le braccia conserte. Si stanno attrezzando, stanno svecchiando i protocolli d’indagine. E i risultati cominciano a vedersi. Certo non basta, c’è bisogno di una nuova consapevolezza nella lotta alle mafie che oggi sparano di meno, corrompono di più e stringono alleanze sempre più strategiche.
Dopo una vita trascorsa a indagare sulle cosche calabresi, per lei la nuova sfida si chiama Napoli. Quali differenze ha trovato nella struttura della camorra, rispetto alla ‘ndrangheta?
Non ho la pretesa di fare valutazioni sulle tante camorre esistenti in Campania. Posso dire di aver trovato magistrati e investigatori competenti e preparati. Sto aggiornando le mie conoscenze sul fenomeno, che in alcune province campane non è poi molto diverso dalla ‘ndrangheta. Faremo comunque di tutto, lo assicuro, per rendere i territori più vivibili.
(*) Avvenire
Quasi 6 milioni di italiani nel mondo. In calo gli espatri (-2,1%), per la prima volta superati dalle nascite all’estero
La mobilità degli italiani nel mondo è sempre più inquieta. C’è chi parte, chi resta e chi torna. Aumentano “gli indecisi” e i “moderni clandestini”, ossia chi parte ma non sposta la residenza all’estero. Al 1° gennaio 2023 i connazionali iscritti all’Aire (l’anagrafe degli italiani residenti all’estero) sono 5.933.418, il 10,1% dei 58,8 milioni di italiani residenti in Italia. Mentre l’Italia continua inesorabilmente a perdere residenti (in un anno -132.405 persone, lo -0,2%), “l’Italia fuori dall’Italia” continua a crescere, anche se meno rispetto agli anni precedenti. Basti pensare che la presenza degli italiani all’estero è cresciuta dal 2006 del +91%. Le italiane all’estero sono raddoppiate (99,3%), i minori sono aumentati del +78,3% e gli over 65 anni del +109,8%. I nati all’estero sono cresciuti, dal 2006, del +175%, le acquisizioni di cittadinanza del +144%, le partenze per espatrio del +44,9%, i trasferimenti da altra Aire del +70%. Ma sta avvenendo un fenomeno inverso: da gennaio a dicembre 2022 si sono iscritti all’Aire per “espatrio” 82.014 italiani (-2,1% rispetto all’anno precedente ovvero -1.767 iscrizioni). Se prima del Covid le iscrizioni all’Aire in un anno arrivavano anche a 260 mila e più del 50% erano per espatrio, gli espatri ora stanno diminuendo: dal 49,3% del 2021 su oltre 222 mila iscrizioni al 42,8% del 2022 su oltre 195 mila iscrizioni. Nell’ultimo anno, per la prima volta, il motivo “espatrio” è stato superato dalla nascita all’estero da cittadini italiani (43,4%, quasi 91 mila iscrizioni). Sono alcuni dei principali dati che emergono dal Rapporto italiani nel mondo 2023 a cura della Fondazione Migrantes, presentato oggi a Roma.
L’Italia all’estero è sempre più giovane. Al contrario di quanto avviene in Italia, la comunità all’estero è sempre più giovane. Crescono le classi di età di giovani, giovani adulti e adulti maturi: il 23,2% (oltre 1,3 milioni) ha tra i 35 e i 49 anni; il 21,7% (più di 1,2 milioni) ha tra i 18 e i 34 anni. La Sicilia è la principale regione d’origine (oltre 815 mila). Seguono la Lombardia (quasi 611 mila), la Campania (+548 mila), il Veneto (+526 mila) e il Lazio (quasi 502 mila). Il 48,2% dei 6 milioni di italiani all’estero è donna (oltre 2,8 milioni).
L’attuale presenza italiana all’estero è europea. L’Europa accoglie oltre 3,2 milioni di connazionali (il 54,7% del totale). Il continente americano segue con oltre 2,3 milioni (40,1%). Le comunità italiane più numerose sono in Argentina (oltre 921 mila iscritti, il 15,5% del totale), in Germania (oltre 822 mila, il 13,9%), in Svizzera (oltre 639 mila, il 10,8%). Seguono Brasile, Francia, Regno Unito e Stati Uniti d’America.
Meno espatri nel 2022. Da gennaio a dicembre 2022 si sono quindi iscritti all’Aire per la sola motivazione “espatrio” 82.014 italiani (-2,1% rispetto all’anno precedente ovvero -1.767 iscrizioni). E’ una mobilità prevalentemente maschile (54,6%), non coniugata (67,1%), giovane (il 44% ha tra i 18 e i 34 anni) o giovane adulta (il 23%). Provengono da tutte le 107 province di Italia (soprattutto Milano, Torino, Napoli e Roma) verso 177 destinazioni differenti. Il 75,3% di chi ha lasciato l’Italia per espatrio nel 2022 è andato in Europa; il 17,1% nel continente americano (il 10,5% in America Latina) e il 7,4% si è distribuito nel resto del mondo. Il 16,4% delle iscrizioni per espatrio ha riguardato il Regno Unito; il 13,8% la Germania; il 10,4% la Francia e il 9,1% la Svizzera.
Si emigra per desiderio di rivalsa e crescita. La mobilità oggi non è più sfuggire da situazioni di fragilità economica e occupazionale ma desiderio di rivalsa e crescita. Secondo lo State of the Global Workplace 2023 Report di Gallup, il 51% dei lavoratori nel mondo dichiara di avere intenzione di lasciare il lavoro vista la ripresa dell’occupaze dopo la pandemia. Gli italiani si sentono invece “inchiodati al loro destino professionale” (18%): sono i lavoratori meno coinvolti, i più stressati (49%) e i più tristi (27%). I lavoratori italiani guadagnano circa 3.700 euro in meno della media dei colleghi europei. A soffrire di più sono i giovani: tra i 18 e i 34 anni quasi un ragazzo su due nel 2022 (4,8 milioni) ha almeno un segnale di deprivazione nell’istruzione e nel lavoro. Ben 1,7 milioni sono Neet (Not in Education, Employment or Training).
Pensionati all’estero in calo. La mobilità previdenziale è caratterizzata da incostanza: nel 2019 si registravano quasi 6 mila partenze l’anno, poi scese a più della metà nel 2020 e 2021. Nel 2023 le iscrizioni all’Aire per espatrio degli over 65 anni sono state 4.300: +17,8% per chi ha 65-74 anni, +15,1% per 75-84 anni e +5,3% per gli over ottantacinquenni. I pensionati espatriano verso luoghi esotici amati, Paesi con politiche di defiscalizzazione, ma soprattutto per ricongiungersi a figli e nipoti.
Donne italiane all’estero, moderne e dinamiche. A differenza del passato la donna italiana non migra più per ricongiungersi agli uomini che l’avevano preceduta: oggi va all’estero una donna moderna, dinamica e indipendente, in cerca di un maggior benessere economico e di una carriera professionale più gratificante.
Rientri e rimpatri, raddoppiati in 10 anni. Durante il decennio 2012-2021 il numero dei rimpatri dall’estero dei cittadini italiani è più che raddoppiato: dai 29 mila nel 2012 ai circa 75 mila nel 2021 (+154%). Nell’ultimo decennio, il numero complessivo di rientri in patria è stato pari a 443 mila. Le agevolazioni fiscali introdotte nel 2021 sono state un fattore di attrazione. Nel 2021 le cancellazioni per l’estero di cittadini italiani sono state circa 94 mila, di cui 42 mila donne (45,1%), mentre il numero delle iscrizioni anagrafiche dall’estero è stato di quasi 75 mila individui, di cui 33 mila donne (44,2%). I rimpatri avvengono principalmente verso la Lombardia (14 mila, il 19% del totale), il Lazio (oltre 7 mila, pari al 10%), la Sicilia (quasi 7 mila, pari al 9%) e il Veneto (quasi 6 mila, pari all’8%).
Un nuovo trend: la restanza. Tante sono anche le persone o famiglie – in particolare i giovani – che decidono di rimanere o tornare nelle loro comunità d’origine, avviando iniziative imprenditoriali, attività tipiche dei contesti agropastorali, progetti culturali e sociali, per contribuire alla rinascita economica del territorio.
Pope Francis: “A just peace for the Palestinian and Israeli peoples”
“Our thoughts and prayers are with the peoples who are victims of war”. This was the appeal made by Pope Francis at the end of today’s General Audience, in his greeting to the Italian-speaking faithful. “Let us not forget the martyred Ukraine and let us remember the Palestinian and Israeli people,” the Pope continued: “May the Lord lead us to a just peace. There is so much suffering: children suffer, the sick suffer, the elderly suffer and so many young people die.” “War is always a defeat, let us not forget: it is always a defeat,” the Holy Father reiterated in his umpteenth appeal for peace. The catechesis was dedicated to Madeleine Delbrêl, born in 1904 and died in 1964, a social worker, writer and mystic, who lived for more than thirty years in the working-class, poverty-stricken suburbs of Paris.
“Only on the move, on the go, do we live in the balance of faith, which is an imbalance, like the bicycle. If you stop, it does not stay upright”,
Francis said, commenting on what the same French mystic called a “spirituality of the bicycle.” “Madeleine had a constantly outgoing heart,” Francis said referring to the female figure at the centre of today’s audience: “She let herself be challenged by the cry of the poor. She felt that the Living God of the Gospel should burn within us until we have taken his name to those who have not yet found it. In this spirit, oriented towards the stirrings of the world and the cry of the poor, Madeleine felt called to ‘live Jesus’ love entirely and to the letter, from the oil of the good Samaritan to the vinegar of Calvary, thus giving him love for love … because, by loving him without reserve and letting ourselves be loved completely, the two great commandments of charity are incarnated in us and become but one’.”
“After an adolescence of agnosticism – she believed in nothing – at the age of around twenty Madeleine encountered the Lord, struck by the witness of some friends who were believers”,
The Pope said: “She set out in search of God, giving voice to a profound thirst that she felt within, and came to learn that the ‘emptiness that cried out her anguish in her’ was God who sought her. The joy of faith led her to evolve towards the choice of a life entirely given to God, in the heart of the Church and in the heart of the world, simply sharing in fraternity the life of the ‘street people.’ She poetically addressed Jesus: ‘To be with you on your path, we must go, even when our laziness begs us to stay. You have chosen us to stay in a strange balance, a balance that can be achieved and maintained only in movement, only in momentum.
A bit like a bicycle, which does not stay upright unless its wheels turn. … We can stay upright only by going forward, moving, in a surge of charity.”
“By evangelizing one is evangelized”, is yet another thing we are taught by Madeline. She used to say, echoing Saint Paul: “Woe to me if evangelizing, I do not evangelize myself”. Indeed, “evangelizing evangelizes one. And this is a beautiful doctrine”, Francis remarked off text. “Even secularized environments. – the Pope added – are helpful for conversion, because contact with non-believers prompts the believer to a continual revision of his or her way of believing and rediscovering faith it its essentiality.” “Looking at this witness of the Gospel, we too learn that in every personal or social situation or circumstance of our life, the Lord is present and calls to us to inhabit our own time, to share our life with others, to mingle with the joys and sorrows of the world”, the Pope concluded.
Papa Francesco: “Pace giusta per popolo palestinese e israeliano”
“Pensiamo e preghiamo per i popoli che soffrono la guerra”. È l’appello di Papa Francesco, al termine dell’udienza di oggi, durante i saluti ai fedeli di lingua italiana. “Non dimentichiamo la martoriata Ucraina e pensiamo al popolo palestinese e israeliano”, ha proseguito il Papa: “Che il Signore ci porti a una pace giusta. Si soffre tanto: soffrono i bambini, soffrono gli ammalati, soffrono i vecchi e muoiono tanti giovani”. “La guerra sempre è una sconfitta, non dimentichiamolo: sempre è una sconfitta”, ha ribadito il Santo Padre nel suo ennesimo appello per la pace. Dedicata a Madeleine Delbrêl, nata nel 1904 e morta nel 1964, assistente sociale, scrittrice e mistica, che ha vissuto per più di trent’anni nella periferia povera e operaia di Parigi.
“Soltanto in cammino noi possiamo vivere in un equilibrio della fede, che è uno squilibrio: come la bicicletta, se tu ti fermi non reggi”.
Così il Papa ha commentato quella che la stessa mistica francese definiva una “spiritualità della bicicletta”. “Madeleine aveva il cuore il cuore costantemente in uscita”, ha spiegato Francesco a proposito della figura femminile al centro dell’udienza di oggi: “Si lascia interpellare dal grido dei poveri. Sentiva che il Dio Vivente del Vangelo dovrebbe bruciarci dentro finché non avremo portato il suo nome a quanti non lo hanno ancora trovato. In questo spirito, rivolta verso i sussulti del mondo e il grido dei poveri, Madeleine si sente chiamata a ‘vivere l’amore di Gesù interamente e alla lettera, dall’olio del Buon samaritano fino all’aceto del Calvario, donandogli così amore per amore perché, amandolo senza riserve e lasciandosi amare fino in fondo, i due grandi comandamenti della carità si incarnino in noi e non facciano che uno’”.
“Dopo un’adolescenza vissuta nell’agnosticismo, non credeva a nulla, a circa vent’anni Madeleine incontra il Signore, colpita dalla testimonianza di alcuni amici credenti”,
ha raccontato il Papa: “Si mette allora alla ricerca di Dio, dando voce a una sete profonda che sentiva dentro di sé, e arriva a comprendere che quel ‘vuoto che gridava in lei la sua angoscia’ era Dio che la cercava. La gioia della fede la porta a maturare una scelta di vita interamente donata a Dio, nel cuore della Chiesa e nel cuore del mondo, semplicemente condividendo in fraternità la vita della ‘gente di strada’. Poeticamente si rivolgeva a Gesù così: ‘Per essere con Te sulla Tua strada, occorre andare, anche quando la nostra pigrizia ci supplica di restare. Tu ci hai scelti per stare in uno strano equilibrio, un equilibrio che può stabilirsi e mantenersi solo in movimento, solo in uno slancio.
Un po’ come una bicicletta, che non si regge senza girare. Possiamo star dritti solo avanzando, muovendoci, in uno slancio di carità’”.
“Evangelizzando si viene evangelizzati”, un altro insegnamento di Madeleine, che riecheggiando San Paolo diceva: “Guai a me se evangelizzare non mi evangelizza”. “Evangelizzare evangelizza: è questa una bella dottrina”, ha commentato a braccio Francesco, secondo il quale “anche gli ambienti secolarizzati ci sono di aiuto per la conversione, perché i contatti con i non credenti provocano il credente a una continua revisione del suo modo di credere e a riscoprire la fede nella sua essenzialità”. “Guardando a questa testimone del Vangelo, anche noi impariamo che in ogni situazione e circostanza personale o sociale della nostra vita, il Signore è presente e ci chiama ad abitare il nostro tempo, a condividere la vita degli altri, a mescolarci alle gioie e ai dolori del mondo”, ha concluso il Papa.
https://www.agensir.it/wp-content/uploads/2023/11/PapaUdienzaPiazzaSanPietroVideo_08112023.mp4Fusco (Charis): “L’esperienza carismatica a servizio della Chiesa”
“Ascoltando e accogliendo tutto quanto si è sviluppato in questi anni, a livello della ‘corrente di grazia’ che è il Rinnovamento carismatico cattolico, Charis è chiamato ad essere una voce che accompagna e che indica a tutte le comunità una strada da percorrere in comunione”. Papa Francesco ha usato parole chiare, sabato 4 novembre, nell’Aula VI, concludendo l’incontro “Chiamati, Trasformati, Inviati”. Una tre giorni di lavoro, tra preghiere, insegnamenti, testimonianze e momenti di adorazione, coordinata e promossa da Charis (Catholic Charismatic Renewal International Service), l’organismo istituito dalla Santa Sede e oggi guidato dal moderatore Pino Scafuro, quale servizio per tutte le espressioni dell’esperienza di Rinnovamento carismatico nella Chiesa cattolica di tutto il mondo. Il suo statuto, redatto dai quattro laici sostenuti dal Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, è stato approvato l’8 dicembre 2018 e prevede, per ogni Paese, un servizio nazionale di comunione, il cui compito principale, non trattandosi di un organo pastorale decisionale, è quello di promuovere la comunione tra le varie realtà carismatiche e di porsi al servizio soprattutto di quelle più piccole. Attualmente in Italia il servizio nazionale (formato da 15 membri) si è auto costituito sotto la supervisione di Charis International: è un organo transitorio – in attesa di una compiuta definizione dei criteri di formazione – che dovrebbe diventare definitivo il prossimo anno. Ne fanno parte le realtà più storiche e numericamente rilevanti con riconoscimento pontificio o della Conferenza episcopale italiana, le comunità di Alleanza con riconoscimento diocesano, altre reti di realtà con riconoscimento e due rappresentanti eletti dalle realtà più piccole, oltre a tre giovani. In totale sono circa 60 le realtà partecipanti, i cui responsabili si incontrano annualmente per condividere e consolidare il cammino di crescita.
Eletto nel gennaio 2021, l’attuale coordinatore del servizio è Ciro Fusco che, riflettendo sulla condivisione della molteplicità di esperienze e di conoscenze emerse in questi giorni, ha evidenziato che “il discorso di Papa Francesco, unito alle parole di padre Cantalamessa, rappresenta una conferma di quanto ribadito più volte. Esortazioni chiare e inequivocabili che richiamano tutti all’importanza di una rinnovata cultura della Pentecoste, all’esperienza del battesimo nello Spirito e mettono in guardia il Rinnovamento da ciò che si deve evitare: gestire lo Spirito e sostituirsi alla sua fantasia. Siamo chiamati a servire, non a controllare”. Richiamando quanto affermato poi dal Santo Padre (“Charis può aiutare i singoli gruppi a uscire da una certa ristrettezza di vedute e dando loro un respiro carismatico ed ecclesiale più ampio”), secondo Fusco è stato un incontro importante “per mettere a fuoco i tanti aspetti che caratterizzano il Rinnovamento: non si è trattato di un rito celebrativo, bensì di un’opportunità di notevole livello formativo, con insegnamenti epocali e tematiche che ci hanno interpellato da vicino. In termini di partecipazione emotiva e spirituale – ha proseguito il coordinatore – ho raccolto un evidente entusiasmo, il Pontefice ci sta chiaramente indicando come mettere la nostra esperienza carismatica a disposizione della Chiesa: Charis non deve e non vuole essere un organo di potere o di governo e ha essenzialmente compiti di servizio, a partire dalla missione di educare a partire dalle ‘periferie’ delle nostre realtà, le persone alla conoscenza e alla comunione, per realizzare una piena unità nella diversità”.
A testimoniare questo ‘sguardo’ è anche il presidente del Rinnovamento nello Spirito Santo, Giuseppe Contaldo, presente in Vaticano insieme al Comitato nazionale di servizio e a numerosi animatori, responsabili, delegati degli Ambiti e volontari provenienti da varie regioni italiane. “Lo Spirito Santo – ha affermato – continua la sua straordinaria opera. Dio ancora oggi, e con modalità diverse, continua a chiamare l’uomo. Il problema è che, molto spesso, non ascoltiamo questa chiamata, perché la sua voce viene soffocata dalle voci del mondo e qui nasce la richiesta del Signore: più uomini rispondono alla sua chiamata, più il Cristo potrà essere conosciuto e il mondo trasformato. Prima, però, bisogna trasformare noi stessi e questo cambiamento interiore avviene per opera dello Spirito Santo”. Rosario Sollazzo, coordinatore nazionale, mette poi in luce che “c’è stata subito una adesione per contribuire alla realizzazione di questo evento. Abbiamo visto all’opera la creatività di fratelli e sorelle arrivati da altre Nazioni ed è stata una autentica emozione poter vivere, lì nel cuore della nostra Chiesa, l’esperienza della preghiera carismatica con l’esercizio dei carismi: una grazia straordinaria, che ha generato un’atmosfera di forte maturità ecclesiale che il Rinnovamento sta sperimentando in questo tempo”. Alle sue parole si uniscono quelle del consigliere spirituale nazionale, don Michele Leone, che ha presieduto una delle celebrazioni eucaristiche nella prima giornata dei lavori, “A livello ecclesiale e culturale – spiega – sono emerse testimonianze significative da parte degli esperti di settore, che sono riusciti a descrivere la realtà carismatica mondiale sollecitando positivamente nell’animo dei partecipanti una visione, generata da una formazione, meno locale bensì proiettata ad una dimensione più completa e, direi, continentale. Il RnS si è concretamente messo al servizio, ricevendo il dono di una preghiera carismatica che va ben oltre i confini a cui siamo abituati, esprimendo apprezzamento anche per i tanti carismi che lo Spirito suscita nella Chiesa del popolo di Dio. E ci siamo resi conto che il Rinnovamento carismatico cattolico è vestito di un ‘abito’ non monocromatico, ma intessuto di diverse, gioiose tonalità”. Tonalità espresse anche grazie al servizio nazionale della Musica e del Canto del RnS, che, insieme ad altre nove diverse realtà, ha portato il proprio prezioso contributo nell’animazione di questa ‘sinfonia’ comunionale.
Quanti esorcisti ci sono e dove operano? Mons. Orlita (Aie): “Non siamo maghi cattolici, aiutiamo le persone nel cammino di fede”
Cresce il numero dei sacerdoti esorcisti in Italia e nel mondo. O meglio, aumentano i soci dell’Associazione internazionale esorcisti (Aie), unico ente riconosciuto ufficialmente dalla Santa Sede: in appena un decennio, il numero è quasi quadruplicato passando dai 250 nel 2012 ai 905 di oggi. L’Europa è il continente maggiormente rappresentato (70%), con l’Italia al primo posto (483 soci, di cui 139 ausiliari); segue il Nordamerica (13%), con Stati Uniti (62) e Messico (48); il Sudamerica (11%), guidato dal Brasile (46), e l’Asia (6%, di cui 3 in Cina e 2 a Taiwan); ancora sottodimensionata l’Africa con 13 soci. Tra i tanti progetti portati avanti nell’ottica della formazione, spicca la realizzazione di un corso di base sul ministero dell’esorcismo in Italia, Spagna, Ungheria, Ucraina, Corea del Sud, Tailandia, Brasile, Messico, Argentina. “Gli esorcisti sono i testimoni, la voce e gli ambasciatori di Cristo e della Chiesa presso quanti soffrono a causa del maligno, avendo il compito e il dovere di annunciare ai fratelli e alle sorelle tribolati dal demonio mediante la sua azione straordinaria, che essi sono particolarmente cari al Cuore di Gesù, della Madre sua e dell’intera Chiesa”, ha spiegato padre Francesco Bamonte, dal 2012 alla guida dell’Aie e ora vice presidente, intervenendo al XIV Convegno internazionale dell’Aie durante il quale è stato eletto il suo successore: mons. Karel Orlita, esorcista e canonista della Repubblica Ceca, consacrato nell’Istituto Secolare Servi della Sofferenza e censore esterno teologo del Dicastero delle Cause dei Santi.
(ANSA/Creazioni editoriali)
Lei è nato e cresciuto in una famiglia cristiana, durante gli anni del regime comunista. Ha fatto il fabbro, quando era impossibile entrare in seminario. È stato spiato dalla polizia segreta per la sua fede in Cristo. Un tempo decisivo per la sua vocazione ministeriale?
I cristiani erano cittadini responsabili e bravi lavoratori. Contribuivano al benessere della Repubblica Ceca e alla sua tenuta morale. Ma il comunismo non poteva tollerarlo. I nostri vicini di casa erano al soldo del regime, ci spiavano e riportavano tutto quello che vedevano. Ma, soprattutto, inventavano i fatti: lo abbiamo scoperto quando, negli anni Novanta, potemmo finalmente accedere agli archivi. In quel periodo ho sentito la chiamata del Signore. Mentre i funzionari del partito odiavano la Chiesa in Repubblica Ceca, Dio amava gli uomini: soltanto nella mia famiglia sono sorte cinque vocazione alla vita consacrata.
Da una piccola città della Repubblica Ceca a Roma, dove è stato chiamato alla guida dell’Associazione che rappresenta gli esorcisti in tutto il mondo.
Dal 2012 ad oggi, sotto la presidenza di padre Francesco Bamonte, l’Aie ha precisato meglio i suoi obiettivi ed ha perfezionato gli strumenti per poterli conseguire. Questa è stata senza dubbio la ragione principale della sua crescita numerica e dell’aumento di considerazione all’interno della Chiesa.
Il mio impegno sarà perciò proseguire sulla stessa strada, assicurando una continuità di contenuti e di metodo, con il proposito di migliorare ciò che è migliorabile, non però in modo arbitrario, ma in uno stile di vera sinodalità.
(Foto AIE)
Come è diventato esorcista?
La mia formazione è stata nell’ambito del diritto canonico, pertanto aiutavo il vescovo su questi temi. Un giorno, mentre mi trovavo in curia, il vescovo ha aperto la porta del suo ufficio e ne è uscito profondamente agitato. Aveva avuto un incontro con una persona posseduta e ne era rimasto turbato, insieme al segretario che era con lui. È stato proprio in quell’occasione che mi ha chiesto di diventare esorcista e mi ha conferito il mandato. Ormai sono trascorsi quasi quindici anni.
La considerazione dell’Aie è cresciuta all’interno della Chiesa ed è oggi presente con i suoi soci in 58 Paesi del mondo. Eppure si fatica ancora, in alcune diocesi, a trovare un esorcista a cui potersi rivolgere…
Le ragioni di questa fatica variano da diocesi a diocesi e non è possibile riassumerle tutte. Mi limito a rilevare che
non pochi vescovi, più che mai desiderosi di poter contare su uno o più esorcisti impegnati nella pastorale della liberazione dall’azione straordinaria del maligno, lamentano di non avere nel loro clero sacerdoti adatti a svolgere il ministero di esorcista.
Non basta, dicono, avere una buona preparazione teologica ed essere bravi preti per fare l’esorcista: occorre qualcosa d’altro! E su questo concordo pienamente.
Quali persone si rivolgono agli esorcisti?
Ci sono donne e uomini di fede che subiscono un’azione che Dio permette, a volte straordinariamente, da parte del maligno. Ma ci sono anche persone che si rivolgono a noi come se fossimo i maghi buoni, i maghi cattolici. Non hanno un’idea chiara dell’esorcista, che è un sacerdote che svolge il ministero di Cristo con la licenza del vescovo.
L’esorcista aiuta innanzitutto la persona nel cammino di fede, a migliorare la qualità della sua vita cristiana.
E lo aiuta con l’esorcismo nella lotta personale, contro il disturbo straordinario del maligno. Alcuni sono convinti che l’esorcista li aiuterà a liberarsi da quel disturbo, senza un percorso di fede. Ma non funziona così. Non c’è un rimedio in pillole.
C’è un appello che si sente di fare?
Richiamandomi al discorso che san Paolo VI fece ai Congressi Mariologico e Mariano il 16 maggio 1975, vorrei invitare ciascuno a percorrere e a far percorrere, specialmente ai giovani e ai più piccoli, quella via che è accessibile a tutti, anche alle anime semplici: la via della bellezza. E per questo abbiamo bisogno di guardare a Maria, di fissare la sua bellezza incontaminata, e insieme di guardare ai nostri fratelli e sorelle i quali, perché santi, riflettono l’infinita bellezza del Verbo fatto Uomo, di Colui che è il più bello tra i figli degli uomini, Gesù. Purtroppo, se i nostri occhi sono troppo spesso offesi dalle ingannatrici immagini di bellezza di questo mondo, vengono addirittura accecati.
How many exorcists are there and where do they carry out their spiritual practise? Msgr. Orlita (IAE): “We’re not Catholic magicians, we help people on their spritual journey”
The number of exorcist priests in Italy and throughout the world is growing. In fact, the number of members of the International Association of Exorcists (IEA), the only body officially recognised by the Holy See, is on the increase: in just ten years, the number of members has almost quadrupled, from 250 in 2012 to 905 today. Europe is the continent with the largest number of members (70%), with Italy in first place (483 members, including 139 auxiliaries); followed by North America (13%), with the United States (62) and Mexico (48); South America (11%), led by Brazil (46); and Asia (6%, including 3 in China and 2 in Taiwan). Africa remains under-represented with 13 members. The many projects carried out with a view to formation include a course on the fundamental aspects of the ministry of exorcism in Italy, Spain, Hungary, Ukraine, South Korea, Thailand, Brazil, Mexico and Argentina. “Exorcists are the witnesses, the voice and the ambassadors of Christ and the Church to those who are suffering because of the evil one. Their task and duty is to proclaim to their brothers and sisters afflicted by the devil that that they are particularly dear to the Heart of Jesus, his Mother and the entire Church,” said Father Francesco Bamonte, who has headed the IEA since 2012 and is now its vice-president, speaking at the XIV International Convention of the IEA during which his successor was elected: Msgr. Karel Orlita, exorcist and canonist from the Czech Republic, consecrated in the Secular Institute Servants of Suffering and external theologian of the Dicastery of the Causes of Saints.
You were born into a Christian family and grew up under the Communist regime. You worked as a blacksmith when it was impossible to enter the seminary. The secret police spied on you because of your faith in Christ. Was this a turning point in your calling to the ministry?
Christians were responsible citizens and hard workers. They contributed to the well-being of the Czech Republic and to its moral standing. But communism could not tolerate that. Our neighbours were on the payroll of the communist regime, they spied on us and reported everything they saw. And above all, they made up stories: we discovered this when we finally had access to the archives in the 1990s. It was then that I felt the calling of the Lord. While the Communist Party officials hated the Church in the Czech Republic, God loved the people: in my family alone, there were five vocations to the consecrated life.
From a small town in the Czech Republic to Rome, where you were called to lead the association that represents exorcists throughout the world.
From 2012 to the present day, under the presidency of Father Francesco Bamonte, the IEA has better defined its objectives and perfected the instruments for achieving them. Its growth in numbers and in esteem within the Church is undoubtedly attributable to this.
I will therefore continue to pursue the same path, ensuring continuity of content and method, with the intention of improving what can be improved, not arbitrarily but in a style of true synodality.
How did you become an exorcist?
I was formally trained in canon law, so I assisted the bishop in these matters. One day, while I was in the curia, the bishop opened the door of his office and went out in a deep state of agitation. He had had an encounter with a person who was possessed and he was very upset, and so was the secretary who was with him. On that occasion he asked me to become an exorcist and gave me the mandate. That was nearly fifteen years ago.
The IEA has grown in its recognition inside the Church and now has members in 58 countries around the world. Nevertheless, in some dioceses it is still difficult to find an exorcist to turn to…
The reasons for this difficulty vary from diocese to diocese and it is not possible to list them all. I should however point out that
some Bishops complain that they do not have priests in their clergy who are qualified to carry out the ministry of exorcist, and are more than ever anxious to rely on one or more exorcists to carry out the pastoral care of deliverance from the extra-ordinary workings of the Evil One.
They say that it is not enough to have a good theological preparation and to be a good priest to be an exorcist: something else is needed! And I totally agree.
Who are the people who turn to exorcists?
There are women and men of faith who are subjected to an action that God allows, sometimes in an extraordinary way, by the evil one. But there are also people who turn to us as if we were the good magicians, the Catholic magicians. They don’t know exactly what an exorcist is: a priest who carries out Christ’s ministry, authorised by the bishop.
First of all, the exorcist helps the person in his or her journey of faith, to improve the quality of his or her Christian life.
And through exorcism, he helps them in their struggle against the extraordinary affliction of the evil one. Some people believe that the exorcist will help them to get rid of this evil affliction without a spiritual path. But it doesn’t work that way. It cannot be cured with pills.
Is there an appeal you would like to make?
I would like to make an appeal, based on the speech given by Pope Paul VI at the Mariological and Marian Congress on May 16, 1975, to everyone, especially to the young and the young at heart, to follow and to encourage them to follow that path which is accessible to everyone, even to simple souls: the path of beauty. And to do this, we must turn our gaze to Mary, contemplate her immaculate beauty and, at the same time, direct our gaze to our brothers and sisters who, because they are saints, reflect the infinite beauty of the Incarnate Word, the most beautiful of all children of men, Jesus. Unfortunately, when our eyes are too often offended by this world’s deceptive images of beauty, they are also blinded.
60 anni di Inter Mirifica: ancora un punto di riferimento per chi si occupa di processi comunicativi
Nel 1963, mentre il padre degli studi moderni sui media Marshall McLuhan inaugurava il suo Centro in culture e tecnologie all’Università di Toronto, Paolo VI firmava il Decreto Conciliare Inter Mirifica. Probabilmente non esiste alcuna connessione tra i due eventi, eppure non è del tutto casuale che avvengano nello stesso anno. Entrambi furono riflesso evidente dello spirito del tempo, contraddistinto dallo sviluppo inarrestabile dei mezzi di comunicazione. Se lo studioso canadese volle avviare una comprensione scientifica delle origini e degli effetti della tecnologia, il Concilio intese annoverare nel proprio corpus dottrinale “le meravigliose invenzioni tecniche che l’ingegno umano è riuscito, con l’aiuto di Dio, a trarre dal creato e che hanno offerto nuove possibilità di comunicare”. È questo il passaggio iniziale di Inter Mirifica, probabilmente uno dei più significativi, proprio perché legittima la scelta della Chiesa universale di avviare un pensiero sistematico sui media.
Il Decreto rappresentò, però, soltanto un piccolo sasso nello stagno. La sua articolazione non fu esente da giudizi negativi, disaccordi, tentativi di bloccarne la promulgazione. I mezzi di comunicazione, infatti, erano considerati dai circoli teologici più conservatori qualcosa da cui guardarsi. Pur intravedendone le potenzialità benefiche, bisognava seguirli “con occhio vigile” (come scrisse Pio XI nell’enciclica Vigilanti Cura del 1936), facendo attenzione a non trasformarli da meravigliose invenzioni (Miranda Prorsus, dal nome dell’Enciclica di Pio XII del 1957) in strumenti che potessero distorsivi della fede e dell’integrità morale del popolo cristiano.
Bisogna aspettare il 1959 per un’istituzionalizzazione del legame Chiesa/media. Fu Papa Giovanni XXIII a istituire (con la Lettera apostolica Boni Pastoris) la Pontificia Commissione per la cinematografia, la radio e la tv che aveva il compito di assicurare che le produzioni rispecchiassero la dottrina cristiana.
Tre anni dopo, proprio con l’Inter Mirifica, i media entrarono a pieno titolo nell’universo ecclesiale, inaugurando un cammino multi-prospettico e permanente che ha dato (e continua a dare) molti frutti. Tra questi: i messaggi per le annuali Giornate mondiali delle comunicazioni sociali, gli Uffici diocesani di comunicazione, la dimensione formativa e tutto il macrocosmo mediale che ruota intorno alle varie esperienze di Chiesa. Dopo 60 anni il Decreto conciliare (fu pubblicato il 4 dicembre del 1963) continua a rappresentare un punto di riferimento per tutti coloro che si occupano di processi comunicativi in un’ottica cristianamente ispirata.
L’anniversario ha anche stimolato l’ideazione e l’organizzazione di un convegno che ha la finalità di riprendere i contenuti del documento, di evidenziarne punti di forza e criticità, ma anche di attualizzarlo alla luce dell’evoluzione e della trasformazione dei digitale con il simposio “60 anni di meraviglie”, promosso congiuntamente da tre realtà accademiche pontificie romane: le università Santa Croce, Lateranense e Salesiana. Strutturata in tre sessioni pomeridiane, l’iniziativa indaga le radici storiche del documento, le sue implicazioni teologiche e socio-pastorali e soprattutto prova a ricollocarlo teoreticamente nella cultura digitale. E si colloca anche sulla linea tracciata dalla Costituzione Apostolica di Papa Francesco Veritatis gaudium circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche: rispondere alla “necessità urgente di fare rete e di studiare i problemi di portata epocale che investono oggi l’umanità, giungendo a proporre opportune e realistiche piste di risoluzione”.
60 anni di Inter Mirifica: un punto di riferimento per la comunicazione della Chiesa
Il primo documento approvato dai padri membri del Concilio Vaticano II è stato il decreto che trattava specificamente dei mass media, cioè l’Inter mirifica. L’iter d’Inter mirifica non è stato facile. Il testo era stato inizialmente pensato come una costituzione, cioè come un documento riservato a questioni di grande rilevanza. Tuttavia, esso finì come decreto e fu approvato con più voti negativi di qualsiasi altro documento conciliare. Concretamente, il testo ricevette 1.960 voti postivi, 164 negativi e 7 nulli. Dopo diverse lunghe stesure, il decreto fu accettato in una versione ridotta che forniva un quadro molto generico sul pensiero teologico riguardo ai mass media. Nonostante ciò, Inter mirifica è diventato un punto di riferimento per tutti i successivi documenti magisteriali sui media e le comunicazioni sociali e ha sicuramente segnato un punto di partenza nelle riflessioni ecclesiali sulle comunicazioni massmediali. È la prima volta infatti che il concetto di “mezzi di comunicazione sociale” (Inter mirifica, n. 3) compare nei documenti della Chiesa in riferimento ai mass media, superando precedenti espressioni generiche come “i più potenti mezzi di pubblicità” (Divini illius Magistri di Pio XI, 1929), “mezzi per influenzare le masse” (Vigilanti cura di Pio XI, 1936), “invenzioni tecniche” (Miranda prorsus di Pio XII, 1957) o “invenzioni notevoli” (Boni Pastoris di Giovanni XXIII, 1959).
Il decreto sui mezzi di comunicazione sociale è diviso in due capitoli: il primo è dedicato al corretto uso dei mass media, mentre il secondo si concentra sui mass media come mezzi per l’apostolato. Senza dubbio, gli sviluppi teologici e i dibattiti del Concilio Vaticano II sulla missione della Chiesa nel mondo e sulla teologia dei laici sono stati fattori chiave che hanno influenzato la visione sui mass media. Inter mirifica parte della premessa che la missione della Chiesa è, prima di tutto, la predicazione del Vangelo per la salvezza degli uomini, aggiungendo che questo compito richiede “l’impiego degli strumenti di comunicazione sociale” (n. 18). Per quanto riguarda il ruolo dei laici, il decreto afferma: “Peraltro è compito anzitutto dei laici animare di valori umani e cristiani tali strumenti, affinché rispondano pienamente alla grande attesa dell’umanità e ai disegni di Dio” (n. 3).
Un principio generale assoluto nell’ambito delle comunicazioni sociali che Inter mirifica rende esplicito è il “primato dell’ordine morale obbiettivo” (n. 6). In questo senso, l’uso dei mezzi di comunicazione di massa da parte del pubblico e dei professionisti della comunicazione richiede di conoscere e vivere secondo i principi morali generali propri della dignità dell’uomo. Questo aspetto è alla base di tutti gli altri principi morali sulla comunicazione e si può trovare in quasi tutti i documenti successivi della Chiesa relativi ai media come, ad esempio, l’istruzione pastorale Aetatis Novae (1992).
Inoltre, il decreto ha incoraggiato la creazione, nelle strutture della Chiesa, di uffici nazionali per la stampa, il cinema, la radio e la televisione. “Sarà compito principale di questi uffici”, si legge nel documento, “provvedere a che i fedeli si formino una retta coscienza circa l’uso di questi strumenti, come pure di incrementare e regolare tutte le iniziative dei cattolici in questo settore” (n. 21). L’esperienza posteriore ha dimostrato come questo augurio si sia realizzato ovunque tramite l’istituzione, avvenuta con più o meno successo, di uffici di comunicazione in tantissime diocesi, conferenze episcopali, congregazioni religiose, movimenti, ecc.
Con Inter mirifica è stata anche istituita la celebrazione annuale della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che, sin dal suo inizio, è stata celebrata in tutto il mondo. Sono quindi già 57 le giornate, ciascuna accompagnata da un messaggio del Santo Padre, che hanno toccato tutti i temi rilevanti nell’ambito comunicativo, dalla famiglia ai giovani, dalle reti sociale all’intelligenza artificiale (come si evince nel Messaggio per il 2024, la 58esima giornata).
Sebbene Inter mirifica abbia chiaramente sancito il diritto della Chiesa cattolica ad avere propri mezzi di comunicazione, non ha sottolineato la libera iniziativa e la responsabilità dei cristiani nel promuovere i valori del Vangelo attraverso i mezzi di comunicazione non direttamente appartenenti ad essa. Tuttavia, come è già stato detto, è a partire da Inter mirifica che è stata data una crescente attenzione ai mass media nei documenti ufficiali della Santa Sede e nelle dichiarazioni pubbliche dei Papi.
(*) decano della Facoltà di Comunicazione Istituzionale della Pontificia Università della Santa Croce